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CONTAINER

Sono i cassoni in alluminio i veri artefici della globalizzazione: così sostiene Marc Levinson E in un libro racconta la storia del «box» magico che in 50 anni ha reso il mondo molto più piccolo

Sono incastrate come il tetris. Al millimetro, così non si muovono. Viaggiano a fianco a fianco per migliaia di chilometri, ordinate, precise, colorate. Tutte uguali, da fuori: scatole, come quelle da infilare negli armadi, solo molto più grandi, enormi. Scatole che pesano anche quaranta tonnellate. E che ci fanno mangiare, vestire, lavare, truccare, giocare, ascoltare musica e guardare la televisione. Scatole magiche, perché quando si aprono esce un mondo: il lavoro delle mani di persone che hanno cucito e avvitato, tagliato e dipinto in fabbriche dall’altra parte del pianeta.
E il segreto è lui, il container. Una scatola in metallo che ha rivoluzionato l’economia mondiale. È la teoria di Marc Levinson, ex caporedattore dell’Economist, collaboratore di Newsweek e direttore del Journal of Commerce: non sono i microchip, non sono i computer e neppure internet ad aver rimpicciolito il pianeta. Il suo The box. La scatola che ha cambiato il mondo (pubblicato in Italia da Egea) dice che la strada della globalizzazione è partita da Maxton, una cittadina della Carolina del Nord fondata nel Settecento da immigrati scozzesi e che, in origine, si chiamava Shoe Heel: «La leggenda vuole che fosse stata ribattezzata Maxton dopo che un tale, urlando dal finestrino di un treno: “Ciao, Mac!”, aveva ottenuto risposta da dieci uomini».
L’INTUIZIONE
A Maxton i McLean sono una stirpe: fattorie sparse sul territorio, amicizie giuste nei posti utili, un clan pronto ad aiutarsi. Il giovane Malcom si costruisce una carriera da camionista: «Nel 1935, a 22 anni e con un solo anno di esperienza alle spalle, possedeva due camion e un rimorchio e impiegava nove autisti: dopo sei anni possedeva trenta camion e fatturava 230mila dollari lordi». È Malcom McLean, il camionista, a stravolgere il trasporto sui mari: «Nel 1953 - racconta Levinson - ha un’intuizione geniale: invece di percorrere le trafficate autostrade costiere, perché non mettere i rimorchi sulle navi e traghettarli su e giù per la costa?». McLean calcola: «La spedizione tramite container sarebbe stata del 94 per cento più economica di quella a imballo». Prezzo del container compreso.
Il conto è giusto: «Oggi le spese per il trasporto sono diventate una nota a piè di pagina nell’analisi dei costi di un’azienda». Prima non era così: imballare e trasferire le merci dall’azienda al porto più vicino e poi, via mare, dal molo di arrivo ai distributori poteva incidere fino al 25 per cento sul prezzo del prodotto, senza contare danni e perdite frequenti. Ma l’idea non funziona subito: è solo nell’aprile del 1956 che McLean ottiene il permesso per far imbarcare sulla Ideal-X, una vecchia petroliera, 58 scatoloni in alluminio, che percorrono il tragitto fra il porto di Newark, nel New Jersey, e Houston, in Texas. La gru caricava un container ogni sette minuti: nessun portuale avrebbe potuto competere. E infatti gli uomini del fronte del porto e i sindacati non gradiscono: per anni è battaglia agli scatoloni, soprattutto sulle banchine di New York.
IL SUCCESSO
McLean vince grazie al Vietnam: l’esercito ha bisogno di rifornimenti, i porti del Paese sono impraticabili. Nel 1966 il governo americano cede: «Le entrate dal Dipartimento della difesa fruttarono alla Sea-Land di McLean 450 milioni di dollari fra il ’67 e il ’73. Nel 1971 i 102 milioni provenienti dalle vendite in Vietnam costituivano il 30 per cento del fatturato aziendale».
La scatola magica è sdoganata e cambia la vita di chi vive sulle grandi navi: «I giorni di congedo in porti esotici dei marinai che si imbarcavano per girare il mondo - ricorda Levinson - sono stati sostituiti da qualche ora di sosta in un remoto deposito per container». I porti - quelli che contano - cambiano nome: New York, Liverpool e Londra sono rimpiazzate da Busan e Seattle negli Stati Uniti, Tilbury e Felixstowe in Gran Bretagna e, poi, dai moli asiatici, Tanjung Pelepas in Malesia, Singapore e Hong Kong. Nelle scatole non ci sono solo prodotti finiti, ma parti e componenti: è così che negli anni ’90 la Barbie perde identità geografica e diventa cittadina globale: «Operai cinesi fabbricavano la bambola con stampi statunitensi e macchinari giapponesi ed europei; i lunghi capelli di nylon erano giapponesi, la plastica per il corpo veniva prodotta a Taiwan, i pigmenti in America e gli abiti in Cina».
McLean perde tutti i soldi nel 1986, ma la sua Sea-Land vive ancora: è stata assorbita dalla Maersk Line, la compagnia che, nel 2006, ha varato la Emma Maersk, la nave container più grande al mondo: lunga quasi 400 metri, lo scorso dicembre aveva a bordo soltanto 13 uomini per occuparsi degli 11mila cassoni impilati nelle sue stive.

Babbo Natale, anche lui, si era trasformato in una scatola magica.

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