Bruno Contrada denuncia il pm Antonio Ingroia. L’ex funzionario del Sisde, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa sulla base di dichiarazioni di pentiti (nella stragrande maggioranza prese per buone senza riscontri) va all’attacco del pm palermitano dopo aver letto un passaggio di un libro scritto dal magistrato, Nel labirinto degli dèi, nel quale Ingroia rivela di aver raccolto a verbale accuse di un pentito rivolte sia al premier Silvio Berlusconi che allo stesso Contrada. Accuse cadute perché prive di riscontro, ma senza che il «collaborante» venisse poi perseguito per calunnia.
Il «pentito» in questione è Vincenzo Scarantino, carrozziere falsamente autoaccusatosi di aver preso parte alla strage di via D’Amelio, in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino. Il brano «incriminato» del libro di Ingroia, che ha innescato l’esposto denuncia, racconta di come Scarantino avesse messo «sul piatto due temi di prova apparentemente “appetitosi”: nuove accuse a carico di Bruno Contrada, alto funzionario dei servizi di sicurezza (...) e, addirittura, dichiarazioni che coinvolgevano il già allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi in oscure vicende di traffico di stupefacenti». Le indicazioni di Scarantino su Contrada, prosegue il pm nel suo volume, «erano minuziose e precise, apparentemente riscontrabili», mentre le accuse al premier «erano generiche e sostanzialmente indimostrabili». Così il procuratore aggiunto racconta di aver cercato di «riscontrare il riscontrabile» dando incarico alla polizia giudiziaria. Ma «l’esito fu sconfortante», rivela Ingroia: «Le dichiarazioni accusatorie in merito a Contrada erano riscontrate ma solo in apparenza (...) i fatti riferiti da Scarantino erano accaduti (...) ma non era stato acquisito alcun riscontro che si potesse considerare individualizzante a carico di Contrada».
L’«aneddoto», spiega Ingroia, è riportato perché dovrebbe dimostrare l’«infondatezza» del teorema secondo il quale «i magistrati della procura di Palermo (...) accetterebbero sempre per buone le dichiarazioni di qualunque pentito purché accusatorie nei confronti dei propri inquisiti».
Ma l’ex funzionario del Sisde, che si è sempre detto innocente e vittima di un complotto, ha letto diversamente quel passaggio. Dando mandato al suo legale, Giuseppe Lipera, di presentare un’esposto denuncia al Guardasigilli, alla Cassazione e alla procura di Caltanissetta. «Nel processo in cui fui imputato», spiega Contrada, non vi era «alcun atto riguardante un interrogatorio di Ingroia a Scarantino» né traccia «dei successivi accertamenti con esito negativo». Perché dunque, domanda Contrada, «non fu promossa azione penale (obbligatoria) per il reato di calunnia in mio danno», se Scarantino aveva mentito? E soprattutto, perché i magistrati non si sforzarono «di sapere chi ebbe prima a suggerire quelle bugie e poi convincere lo Scarantino a riferirle all’autorità giudiziaria?».
Una domanda «pesante». Anche alla luce di quanto lo stesso «falso pentito» scrisse mesi fa alla vedova Borsellino, ammettendo di non aver mai saputo nulla dell’attentato, e sostenendo di aver depistato perché era «stato oggetto e vittima di piani e strategie che non mi appartenevano». Il dubbio di Contrada è in pratica lo stesso della vedova Borsellino, che in risposta alla missiva di Scarantino gli chiese quali fossero «le persone che ti hanno “zittito” e “minacciato”», e «quali istituzioni avevano interesse» - e perché - «a depistare le indagini».
Interrogativi che per Lipera sono la «prova della congiura».
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