Contro il logorio del pop tutti ai piedi di McCartney

Contro il logorio del pop tutti ai piedi di McCartney

La tournée stava per saltare. Ad agosto sembrava ormai annullata, gli impegni del baronetto negli Usa, non solo di spettacolo, avevano suggerito di ridurre il giro d’Europa previsto per l’autunno-inverno. Poi gli organizzatori italiani hanno riacciuffato il fenomeno. Eccolo.
Sono trecento, non tutti giovani, comunque tutti forti. I trentuno camion formano una colonna paurosa. Lo spettacolo è pronto, stasera si parte. Tutto questo per un baronetto inglese di anni sessantanove, James Paul McCartney, nativo di Liverpool, cittadino del mondo. L’Europa delle banche mette in castigo l’Italia ma sir Paul ha deciso di incominciare premiando proprio il Paese del sole, come dice lui, il tour che lo porterà stasera a Bologna, domani a Milano e mercoledì a Parigi, due giorni dopo a Colonia, poi a Londra, Stoccolma, Helsinki, Mosca, Manchester e, con un finale romantico e nostalgico, il 20 dicembre all’Echo Arena di Liverpool.
La storia continua, McCartney resiste al logorio della musica moderna, scrive, compone, esegue, interpreta, canta, reduce e combattente, il gruppo favoloso è ormai un uomo solo al comando, Ringo Starr è l’altro superstite della leggenda, diverso per carattere, educazione, simpatia, capacità, infine superbo, arrogante. Macca ritrova l’Italia per la sesta volta grazie alle buone opere di un ragazzo sessantenne di Somma Vesuviana e un altro bambino bresciano, si chiamano Mimmo D’Alessandro e Adolfo Galli, da oltre vent’anni giocano con i balocchi più belli della musica, Dylan, Miles Davis, Tina Turner, Elton John, Lionel Ritchie, Eric Clapton, Joe Cocker, James Taylor, gli Spandau Ballet, McCartney per l’appunto: «perché la mia generazione era così divisa: di qua i Beatles, di là gli Stones e io ero con quelli di Liverpool». Mimmo D’Alessandro ha vissuto una settimana di quelle magiche, il suo Napoli ha battuto gli inglesi e oggi a Bologna un inglese amico suo dal millenovecentottantanove, un tipo meno presuntuoso di quelli del Manchester City, viene a regalare un po’ di musica agli italiani, giovani, anziani, di mezza età, tre generazioni riunite. Macca e i Fab Four scoprirono l’Italia nel Sessantacinque, c’è una fotografia della loro esibizione diurna al Vigorelli di Milano che spiega come quel tempo sembri un millennio fa: i Beatles suonano e alle loro spalle, sullo sfondo, campeggiano i cartelloni pubblicitari delle Sei Giorni di ciclismo, Cucine Componibili Salvarani, Fiat e a seguire, tutto gratuito, incosciente. Quarantasei anni dopo i 31 camion, l’alveare di 300 addetti, i 900 metri di transenne, i 480 pasti rigorosamente vegetariani serviti ogni giorno, i due milioni e mezzo di incasso delle due serate italiane, l’esaurito con tredicimila e cinquecento biglietti venduti all’Unipol Arena di Bologna e gli undicimila e trecento al Forum di Assago di Milano, sono la facciata B dello stesso disco, dello stesso mito. Il mito che da solista ha cantato a Milano, a Firenze, a Roma, a Napoli: «Quella del 5 giugno del Novantuno resta una data storica, decidemmo, Adolfo e io, di annunciare il concerto di Paul soltanto il giorno stesso, con un articolo su Il Mattino. La gente pensò a uno scherzo, il tam tam fu immediato, al teatro Partenope ci fu lo straesaurito, Paul sventolava una maglietta della Sampdoria che aveva vinto lo scudetto, un trionfo napoletano in tutti i sensi».
Macca è alla terza moglie, Macca ha ricevuto il premio Gershwin dalle mani di Obama, per il presidente e per Michelle ha suonato alla Casa Bianca, la musica di Gershwin era quella che Jim McCartney ripeteva al piano verticale per il figlio Paul. Jim era stato il capo di una band di jazz, Paul mangiava pudding e musica. Questa è antologia maccartiana, McCartney è rimasto uguale a se stesso, ha scelto quattro compagni di viaggio diversi per estrazione, due californiani Rusty Anderson e Brian Ray alle chitarre, Paul “Wix” Wickens alle tastiere e quel fenomeno messicano, di ciccia e di abilità, di Abe Laboriel jr alla batteria.

Non sono i Fab Five, non è possibile ripetere l’incantesimo, basta il Fab One, sir James Paul McCartney, di anni sessantanove, per riaprire il diario, per riascoltare la musica e risentire il profumo di un’epoca che se ne è andata sul calendario ma che torna con una voce, con una nota. I cartelloni del Vigorelli sono scomparsi. Paul McCartney continua a cantare.

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