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Contrordine di Bush tutti i leader a Pechino

I politici, si sa, sono mobili qual piuma al vento. Perfino più mobili dei giornalisti, che è tutto dire. Le loro indignazioni divampano e si spengono con una facilità che qualcuno vorrebbe bollare come cinismo, ma che forse va soltanto catalogata sotto l’etichetta «ragion di stato». Le olimpiadi di Pechino hanno dato avvio ai soliti dilemmi, boicottaggio sì o boicottaggio no presenza o assenza dei «grandi».
Questa polemica mi riporta a un modesto fatto personale. Nel 1976 - disputandosi a Santiago del Cile, in pieno regime pinochettiano - la finale della coppa Davis di tennis, Il Giornale sostenne che gli italiani, diventati finalisti per la rinuncia della squadra sovietica, dovessero giocare. Una competizione sportiva, dicemmo e ripetemmo, non costituisce né un avallo politico né un’adesione ideologica. In coerenza con questo principio, nel 1980, quando si svolsero le olimpiadi di Mosca osteggiate per l’invasione sovietica dell’Afghanistan, scrissi un fondo per ribadire che, se sport e politica non erano legati, bisognava andare in Russia come si era andati in Cile. Montanelli pubblicò la mia opinione e pubblicò egualmente l’indomani un articolo di segno opposto a firma di Enzo Bettiza.
Dovrei dunque associarmi oggi alle decisioni che in rapida successione, pur dopo ormai accantonati furori, sono state prese da Bush, da Sarkozy, da Berlusconi. La Cina non è vicina ma è incombente, il Tibet è remoto e, nell’arancione dei suoi monaci, un po’ folcloristico, il Dalai Lama è simpatico ma disarmato e vulnerabile ancor più del Papa. Insomma non vale la pena di guastarsi con la Nomenklatura cinese per un broncio di facciata, rituale se non retorico.
Posso dunque riconoscere la saggezza, mercantile se volete, dei ripensamenti ufficiali. Tuttavia due aspetti della vicenda non mi sono molto piaciuti. Il primo è che si sia insistito inizialmente nel far sapere che sport e politica e diritti umani sono connessi, per poi accettare tardivamente, la tesi che gli atleti sono atleti e non agit-prop. Il secondo è che il mutamento di opinione di alcuni governanti fra più dinamici e più orgogliosi sia avvenuto dopo che il presidente americano aveva aperto la strada. Una volta stabilito che Bush era meno in collera sono sbollite anche le arrabbiature francese, italiana e chissà quante altre.

I volti non particolarmente espressivi dei potenti di Pechino si saranno concessi per l’occasione un sorriso furbetto. Non occorre faticare troppo, avranno pensato, per ottenere entrature nei palazzi europei. L’accesso alla Casa Bianca è un passepartout. Il resto viene da sé.

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