«Convinsi Sharon a lasciare Gaza Oggi chiedo: fermate gli integralisti»

Sergio Della Pergola, nato e vissuto in Italia fino al 1966, insegna Demografia all’università di Gerusalemme. Il suo «Rapporto strategico sulla situazione del popolo ebraico» ha convinto nel 2004-2005 l’allora premier Ariel Sharon a ritirarsi dalla Striscia di Gaza e, successivamente, ad avviare lo sgombero israeliano dalla Cisgiordania. «Dalle proiezioni sugli andamenti demografici nei territori dell'ex mandato britannico (Israele e Palestina) emerge che nel 2050 gli ebrei potrebbero essere circa il 35% della popolazione complessiva», spiegava lo studioso all’ex falco della guerra del Kippur. «Il tasso di natalità nelle famiglie palestinesi è in media di cinque figli, quello delle donne israeliane tre. Risultato? Israele non potrà essere contemporaneamente grande (e quindi esente da concessioni territoriali), ebraica e democratica».
Professore, il suo è un raro caso di demografo che ha influenzato la politica. Per di più in una delle aree più «calde» del pianeta. Tre anni dopo il ritiro israeliano da Gaza, però, i missili di Hamas piovono sulla vostra terra e i tank israeliani sono tornati nella Striscia. I fatti hanno smentito la sua teoria «terra in cambio di pace e democrazia»?
«In linea di principio no. Ma ci deve essere il rispetto delle regole. Proprio giovedì sera mia cugina Susanna Cassuto coniugata Evron, che abita nel kibbutz di Saad, a dieci chilometri da Gaza, ha avuto la sua casa distrutta da un razzo. Per fortuna era a cena da amici: in quella zona quando suona l’allarme hanno 15 secondi di tempo per mettersi al riparo. E se in questo momento la Cisgiordania fosse già stata consegnata all’Autorità palestinese, casa mia rischierebbe la stessa fine: abito a Gerusalemme, a cinque chilometri dalla West Bank. A lei piacerebbe vivere così?».
No. Ma è stato lei a consigliare il ritiro dai Territori. Pentito?
«Un conto è la linea strategica a lungo termine: continuo a pensare che l’unico futuro possibile sia di vivere in due Stati indipendenti. Anche la stragrande maggioranza degli israeliani non pensa a rioccupare Gaza stabilmente. La riprova? Noi abbiamo sgomberato 8mila coloni ebrei. In cambio, ci si aspettava un dialogo civile. Invece Hamas, che governa la Striscia dal 2006, ha continuato a lanciarci missili. I razzi che piombano in Israele in questi giorni hanno una gittata di 40 chilometri: come da Milano a Lugano. Sono armi di nuova generazione, di fabbricazione cinese, penetrati a Gaza durante l’ultimo periodo di tregua attraverso i tunnel scavati fra la Striscia e l’Egitto, probabilmente arrivati via mare. I finanziatori si trovano forse in Iran. Se la Cisgiordania fosse già in mano ad Hamas, la lunga mano iraniana arriverebbe anche lì, come si è infiltrata in Libano, ossia sul Mare nostrum. L’Occidente deve fare la sua parte».
In che modo?
«L’idea di una forza d’intervento Onu a Gaza, proposta da Sarkozy, sarebbe giusta, se ci fossero controlli effettivi. Invece finora l’Occidente ha inviato aiuti ai palestinesi, ma senza monitorare il loro uso. Questi soldi sono finiti in armi, non in formazione professionale e in educazione alla convivenza. Perché finché Hamas, nella sua Costituzione, incita a “uccidere ogni ebreo” fa solo capire che per loro il problema non è il ritiro o meno da Gaza e dalla Cisgiordania, ma è l’esistenza stessa dello Stato di Israele».
A febbraio in Israele si vota. Cosa succederà?
«Se qualsiasi azione militare israeliana avrà il potere di calmare le acque, i moderati della candidata premier Tzipi Livni potrebbero vincere e il dialogo ripartire.

Se invece la situazione rimarrà incerta, o i danni per Israele saranno troppo grandi, prevarrà l’estrema destra. Quella che ora grida “visto, che è stato un errore ritirarsi da Gaza?”. Ma prima delle elezioni, Obama sarà diventato presidente degli Stati Uniti. Avrà un mese per mandare chiari segnali a tutti».

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