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Convivialità

Capitava poi che si andasse fuori a mangiare. Che ci si dirigesse verso la trattoria fuori porta, che ci venisse voglia di pizza gourmet

Convivialità

Capitava poi che si andasse fuori a mangiare. Che ci si dirigesse verso la trattoria fuori porta, che ci venisse voglia di pizza gourmet, di un cinese un po' losco in cui a una certa ora ci lasciavano perfino fumacchiare, magari di uno stellato, perché una volta ogni tanto era bello esagerare. Capitava che ci si vestisse bene, che si scegliesse con cura il locale, che si chiamasse per prenotare, che «sbrigati che facciamo tardi, poi danno via il tavolo», che si fosse emozionati perché - per quelli come me cresciuti in una famiglia in cui cenare al ristorante era un insopportabile atto di decadenza, costoso e stupido - ogni apertura di menu in fondo è un atto esotico ed eversivo. Insomma una festa.

Capitava anche che si invitassero gli amici a cena. Si faceva la spesa, si sceglieva il vino, «porto io il gelato».

Capitava. E poi a un certo punto non è capitato più. Poi è ricapitato ma senza gioia e con mille pericoli, poi di nuovo non è capitato più, poi è capitato ma solo in certi luoghi e in certi laghi, e ora non lo sappiamo più se capiterà di nuovo, e quando, e come.

La convivialità, sport nel quale l'Italia è da sempre in zona podio nelle Olimpiadi della vita, è stata terremotata in questo Ventiventi che sembrava un bel giochino di parole ed è diventato una parolaccia e che te lo dico a fa'. I ristoranti sono stati chiusi, invitare e farsi invitare è diventato impossibile o illegale o comunque sconsigliato. Il nostro spirito di adattamento ha dovuto fare gli straordinari non pagati e «vestiti, usciamo» è diventata una frase tabù. Al massimo «vestiti e porta a pisciare il cane». O la spazzatura. Basta non confondersi che ti ritrovi con il cocker nell'umido.

La fame, però, non ci è passata. Anzi, non abbiamo mai mangiato così tanto. Per depressione, noia, smart eating. Un po' per celia, un po' per non morire. Il combinato disposto del poco sport e dei pani sgrammaticati fatti in forni senza gloria, delle ricette che mai prima avevamo affrontato (e c'era un motivo), dello scopri-lo-chef-che-è-in-te (ma in noi c'è sempre qualcosa che sarebbe meglio non sfucugliare) ha fatto crescere il nostro girovita a braccetto con le nostre ansie. Il segno zodiacale peggiore del 2020 è stata la bilancia. Quella del bagno.

Il nostro cibo ha viaggiato per tutta l'Italia dentro scatole termiche infilate nei portapacchi di scooter elettrici o di biciclette guidate spericolatamente da poveri rider che a un certo punto della nostra vita sono diventati i padroni delle strade e dei nostri appetiti. Il suono del citofono come in un riflesso pavloviano ormai ci mette in moto i succhi gastrici anche quando si tratta del postino con una cartella esattoriale di Equitalia. I nostri menu si sono darwinianamente involuti. Non tutti i cibi del resto vanno bene per il delivery: il sushi sì, il kebab pure, la pizza nì, l'hamburger forse, la gallina in brodo proprio no, la maionese impazzisce, le uova si strapazzano.

Gli chef si sono ingegnati, pur di continuare a esistere e a fare quello che sanno fare. Abbiamo ricevuto svariate cene gourmet sottovuoto, da rigenerare, in scatole, buste e confezioni varie, accompagnate da istruzioni a volte video, a volte scritte, sempre talmente complicate che alla fine ti ritrovavi con il forno e il microonde in funzione all'unisono e sei pentole alla fine da lavare. E intanto apparecchiavamo la tavola con cura, perché il tromp-l'oeil gastrico fosse completo.

Lo abbiamo fatto, però, perché o mangi questa minestra o salti dalla finestra.

Ma ora, ti prego: «Vestiti, usciamo».

E senza cane.

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