Le copertine di Scarabottolo, un’ombra che narra una storia

Alla Feltrinelli «Note» con 32 opere dell’illustratore tra campagne pubblicitarie e disegni pubblicati su giornali e riviste

Daniele Belloni

Scarabottolo di nome fa Guido e di soprannome Bau. Ai tempi delle medie lo battezzarono così perché parlava a bassa voce, cosa che fa tuttora, sicché ogni tanto gli arrivano ancora oggi lettere intestate al «Dottor Bau». Scarabottolo si è laureato in architettura al Politecnico di Milano, ma di professione fa l’illustratore. Una mostra organizzata in contemporanea in otto librerie Feltrinelli sparse per l’Italia (a Milano nel negozio di Piazza Piemonte), intitolata «Note» e visibile fino a domani colleziona trentadue opere di Scarabottolo. Ci sono le copertine dei libri Guanda, come la prima realizzata nel 2002 per l’esordio di Jonathan Safran Foer, «Ogni cosa è illuminata», e poi immagini per campagne pubblicitarie, disegni pubblicati su riviste e inediti. A scorrere i lavori di Scarabottolo si ha la sensazione di leggere un racconto e ti domandi da dove nascano le frasi, quali combinazioni di oggetti, figure e colori producano i dialoghi e i silenzi. Qui un giardiniere che col rastrello traccia un pentagramma al fondo di uno spartito: forse l’allusione al canto e alla musica come arte per la coltivazione di sé? Lì una scrivania abbandonata, solcata da un mini-aeroplano che traversa l’allineamento planetario di terra e luna in direzione di una testa di dinosauro: un viaggio a ritroso verso l’antico mistero? E poi tre uomini e tre donne, le teste sprofondate negli abiti: la goffaggine di esseri un tempo umani, schiavi di una forma, di un’immagine? Mah, lo chiediamo a lui. Fino a che punto interpretare è lecito? «Non c’è limite» risponde Scarabottolo. «Il disegno è fatto a metà dall’autore e da chi lo guarda. Ho sempre lavorato per giornali e riviste, e quindi sento la necessità che il disegno esprima una frase, una narrazione, un’opinione. Per questo ho sviluppato una tecnica che è simile alla scrittura». E fin dal primo sguardo i disegni di Scarabottolo appaiono ricchi di rimandi, incanti, poeticamente sospesi su innumerevoli possibilità narrative. C’è sempre qualcosa che non ti lascia tranquillo, ogni oggetto spande un’ombra, poi ti accorgi che il disegno prosegue oltre la cornice, la aggira, e c’è un segno che spunta dall'altra parte, magari un frammento d’ombra. «Disegno separatamente gli elementi di un’illustrazione e poi li ricompongo al computer. In questo modo aggiungo un elemento di fastidio, di disagio, perché le diverse parti non sono state costruite insieme per essere usate in una vista prospettica precisa». E l’ombra? «Non lo so, ci sono cose nelle mie illustrazioni che non capisco, le idee mi vengono spesso nel dormiveglia della mattina. Comunque il mio è un disegno simbolico, da segnaletica stradale». Lui che si definisce pigro e vorrebbe costruirsi una casa di legno con le sue mani, lui che è indeciso su quale sia il settore artistico in cui dà il meglio di sé («Boh? Forse la lettura?»), adesso è capace di disegnare, ideare o commissionare ad altri, una media di dieci-quindici copertine ogni venti giorni. All’inizio riusciva a leggere i libri, poi non è più stato così: «Ma è meglio non sapere tante cose del testo su cui si lavora. Un libro è una miniera di contenuti, informazioni, stimoli. Rischia di essere troppo. La copertina deve incuriosire, non svelare troppo e al tempo stesso attirare il lettore» E il rapporto con gli autori? «In genere agli autori piacciono moltissimo tutte le copertine, tranne le loro.

Qualcuno prova a intervenire, soprattutto se ha potere, ma io penso che il massimo della qualità coincide con il massimo della libertà». E se potesse lavorare con un grande scrittore del passato? «Kafka, ma non so se avrei il coraggio di rivolgergli la parola».

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