Coperto, una tassa al ristorante Nessuno lo vuole però resiste

I gestori di locali: «L’abolizione potrebbe rilanciare i consumi»

Giuseppe Severgnini lo ha definito «un antipasto esoterico», un «mistero minore della ristorazione»: etimologicamente, qualcosa di «subdolo». Il coperto, letteralmente quanto sta sopra alla tavola, cioè tovaglia, posate, bicchieri, tovaglioli, è un prodotto made in Italy, sconosciuto all'estero. Il bello è che questo balzello, a dispetto delle 40mila leggi nazionali e dei 1100 provvedimenti sfornati annualmente dalle Regioni, non poggia su alcuna normativa. Roba «nostrana», si applica per consuetudine. Risultato: ognuno fa quel che gli pare. Luogo, modalità, prezzo: tutto a discrezione. Capita di trovarselo appioppato sul conto dopo aver pasteggiato con piatti di plastica in un self-service, aggiunto come «extra» al menu fisso o, peggio, nella versione doppia tassazione, insieme con il 10 per cento del servizio. In media due euro e cinquanta centesimi di «obolo» surreale. Che equivale, per una famiglia di quattro persone fuori a cena, a un addebito di una portata (o due dessert) in più. Paghi e non mangi.
«È una cosa scandalosa, il 90 per cento dei ristoranti milanesi ricorre al coperto, che incide sul 3/4 per cento dei guadagni - denuncia Pierre Orsoni, presidente dell'associazione Telefono Blu -. Abolirlo è difficile perché i ristoratori minacciano di aumentare i prezzi. Così, per assurdo, questo tributo finisce per diventare un calmierizzatore». «Beh, negli Usa c'è la mancia obbligatoria che arriva al 20 per cento del conto - scherza l'assessore comunale alle Attività produttive, Tiziana Maiolo -. Però è vero, non esiste una disposizione di legge che lo giustifichi. La questione merita di essere approfondita», promette.
Il fronte degli accusati replica, però, in toni accomodanti. «Potrebbe rilanciare i consumi-. afferma Alfredo Zini, presidente dei circa 2500 ristoratori milanesi aderenti a Epam -. Io stesso, lo scorso anno, ho lanciato un'iniziativa in questo senso. Le cifre - fa notare - sono però diverse: la maggioranza dei ristoranti, diciamo il 65 per cento, ha eliminato questa voce. È vero che all'estero l'onere non esiste, ma si esige un corrispettivo per il servizio, che da noi praticamente non è più richiesto. E i furbi che sommano servizio e coperto sono pochi. Il fatto è che non c'è una legge e ognuno si regola in base ai costi di gestione. Se ho dei bicchieri belli, magari faccio pagare di più».
Chi stenta a unirsi al coro bipartisan tradisce comportamenti inveterati. Abitudini che affondano le radici nella storia evolutiva della nostra ristorazione. «Questa “tassa” nasce nella seconda metà dell'800 - spiega il professor Giuseppe dell'Osso, presidente dell'Accademia Italiana della Cucina, storico sodalizio fondato a Milano negli anni 50 da Orio Vergani -. Il carrettiere portava con sé delle masserizie personali e si sedeva all'esterno delle osterie per consumare il cibo. L'oste, in cambio, gli chiedeva allora un compenso». Medievalismi, a dispetto del secolo, che oggi non hanno più senso.
«È ormai un sinonimo di mediocrità - afferma Edoardo Raspelli, conduttore-gourmet della trasmissione Melaverde -. Un anacronismo cui un buon ristorante non deve ricorrere, pena la stigmatizzazione. Con la speculazione degli ultimi anni è ancora più intollerabile. Ma i consumatori - aggiunge - hanno l'arma per difendersi: basta girare al largo dai luoghi che adottano questo sistema». «Su questo mal di statalismo bisogna sparare a zero - rincara la dose Paolo Massobrio, co-autore della nuova Guida Critica&Golosa della Lombardia -. Non basta “marciarci” sul vino? Il problema - osserva - è che non regge più il pasto italiano. Troppo calorico per queste generazioni che amano mangiare fuori, ma vogliono mantenersi a dieta.

E allora ordinano una portata in meno o il piatto unico. E i ristoratori recuperano il mancato introito ricorrendo subdolamente al coperto». Tutti a monetizzare, insomma. Ignorando che il cliente si aspetta ben altro trattamento.

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