Coppola torna libero «Nessun crac mi hanno rovinato i pm»

È libero. Al «confino» di Grottaferrata, alle porte di Roma. Danilo Coppola ha trasformato, almeno per il momento, una stanza d’albergo nel suo quartier generale e da lì risponde alle domande del Giornale, dopo un anno e mezzo trascorso fra il carcere e gli arresti domiciliari.
Dal 1° marzo 2007, giorno del suo arresto, è successo di tutto: ricoveri in ospedale, un tentativo di suicidio, un’evasione, polemiche violentissime contro l’accusa.
«La mia situazione non ha uguali in Italia».
Perché?
«Si è detto e scritto che c’era un crac del gruppo Coppola, buchi spaventosi nel bilanci, nell’ordine dei 150 milioni di euro, perfino mie presunte collusioni con la banda della Magliana o Cosa nostra. Tutto falso».
L’accusa originale era assai pesante: associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta.
«Quel capo d’imputazione è caduto. Io avrei costituito un sodalizio criminale con il mio commercialista e i miei collaboratori».
E la bancarotta?
«Io non avevo e non ho un euro di debito con nessuno, io ho 670 dipendenti e a tutti ho pagato e pago regolarmente lo stipendio. L’unico creditore era il fisco. La Procura di Roma si è insinuata al posto del fisco, cui dovevo 7,8 milioni di euro, e ha chiesto il fallimento della Micop. Il tribunale l’ha negato, i pm ci hanno riprovato, la Micop è fallita, per la Micop io sono stato arrestato e ho scontato questo periodo di carcerazione preventiva lunghissimo, anche se io al fisco, ho dato più del doppio del mio debito: 20 milioni di euro».
Dove ha sbagliato?
«Forse, c’è stata superficialità da parte di alcuni miei collaboratori nel condurre in porto alcune operazioni infragruppo».
È vero che la contabilità era in mano ad alcuni domestici cingalesi?
«Ci sono stati errori, ma stiamo parlando nella peggiore delle ipotesi, tutta da provare, di evasione fiscale. Non di bancarotta. Forse c’è stato qualche pasticcio, qualche operazione avventata, un po’ di approssimazione. Ma, ripeto, io avevo solo un debito col fisco che poi non me lo aveva ancora richiesto».
Oltre alla Micop sono fallite altre due società.
«Un guaio ha tirato l’altro. Io ero a Dubai, stavo trattando con gli arabi di Jumirah che volevano aprire a Milano, nel quartiere di Porta Vittoria, un hotel a sette stelle. Il mio avvocato mi ha detto che c’erano problemi con la Procura».
Lei?
«Sono tornato indietro e ho chiesto urgentemente un appuntamento con i pm. Era febbraio 2006».
L’incontro c’è stato?
«Sì, ma ormai ero in manette. Sono finito a Regina Coeli. Poi di corsa all’ospedale perché avevo problemi al cuore».
In quel periodo ha tentato di uccidersi.
«Un momento di debolezza. Ero imbottito di gocce, tranquillanti, ero stordito. Stavo malissimo. Avevo difficoltà al cuore, avevo perso 20-25 chili, avevo attacchi di panico provocati dalla claustrofobia che mi trascino da quando, ragazzo, ebbi un brutto incidente stradale e rimasi schiacciato dentro un’auto. Guardi, ho perso il conto dei ricoveri, dei bollettini medici, dei periti che mi hanno visitato e hanno stabilito la mia incompatibilità col carcere. Invece, ho trascorso tre mesi terrificanti a Rebibbia, in una cella di due metri per un metro e mezzo. Prendevo 180 gocce di Lexotan al giorno, ero un fantasma».
Perché è evaso?
«Non sono evaso. Avevo il permesso di andare in tribunale e a cento metri dal tribunale mi sono fermato in un albergo e lì ho dato l’intervista a Sky. Mi sentivo solo, perso, abbandonato e volevo denunciare il mio stato. Così mi hanno arrestato di nuovo e messo in mezzo ai malati di mente, a Parma, per altri due mesi. Impazzivo, stavo malissimo e poi non potevo fare nulla per il mio gruppo, per i miei dipendenti».
Com’è oggi la situazione del gruppo Coppola?
«Ho pagato 50 milioni al fisco, e sono pronto o versarne altri trenta. Ho messo in vendita tutti i beni del gruppo, anche se il gruppo non è così malandato come lo si dipinge. L’Ipi, che è quotata in Borsa, ha 450 milioni di immobili liberi da ipoteche, a cominciare dal Lingotto di Torino».
Il cantiere di Porta Vittoria si è arenato?
«A Porta Vittoria, dove dovrebbe sorgere anche la Biblioteca europea, avevo immaginato un progetto molto ambizioso: centinaia di appartamenti, un centro commerciale, impianti sportivi, un parcheggio, l’albergo a sette stelle per cui stavo trattando con gli arabi. Ora è tutto desolatamente fermo. Gli arabi sono spariti, a Rimini mi hanno portato via il Grand Hotel, il mio aereo personale, un Falcon che vale 35 milioni di euro, è sotto sequestro. Un disastro: questo stallo mi costa milioni di euro. Mi sento strangolato e spinto a scegliere fra due alternative».
Quali?
«Svendere o veder collassare le mie società.

Ma non può finire così e non voglio che altri imprenditori, finanzieri o immobiliaristi banchettino con i beni del mio gruppo. Farò di tutto, ora che sono libero, per difendermi e per difendere un gruppo che merita rispetto».

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