Cultura e Spettacoli

Il coraggio di leggere il mondo senza tornaconti

Dalla guerra in Irak alle rivolte delle periferie parigine: i fenomeni sociali interpretati da un giovane economista

L’economia come osservatorio su tutta la realtà. L’economia come possibilità di raccontare il mondo. L’economia come ultimo raccordo di tutti gli elementi che concorrono a formare una situazione, un problema, un allarme. L’economia caricata a salve (privata cioè del suo potere) funziona come sguardo, rivela intrecci, mostrando il proprio lato umanista.
Se in Italia questo crinale d’indagine ha in Geminello Alvi e Giulio Sapelli i nomi più noti, altre voci e altri stili li affiancano, oggi. Come quella del giovane economista - italiano ma residente a Parigi - Francesco Magris, di cui è presente in libreria il volume Tornaconti (SEI, pagg. 180, euro 12), una raccolta di saggi perlopiù brevi ben rappresentativi del temperamento intellettuale del loro autore.
Non si tratta qui, naturalmente, dell’applicazione di uno sguardo economicistico (schematico) a realtà ad esso estranee, ma di come una certa abitudine e passione alla fluidità dei fenomeni umani, all’oscillazione dei valori possa risultare utile a misurare la temperatura del mondo. Come fece il primo grande economista moderno: William Shakespeare (provare per credere: leggete il Troilus and Cressida). La scelta e la variazione degli argomenti ci testimonia dell’acutezza dello sguardo del giovane autore: siano essi fatti di cronaca - come la guerra in Irak, i disordini parigini del novembre 2005, il caso dell’estradizione dell’ex-terrorista Cesare Battisti -, o temi riguardanti, ma sempre obliquamente, l’economia, si avverte una notevole capacità di cogliere, quale che sia l’oggetto di indagine, gli indicatori giusti.
In un tempo in cui è più difficile che mai individuare gli indicatori adatti a comprendere un fenomeno sociale (di qualsiasi tipo), Francesco Magris dimostra una sicurezza insolita. Un altro pregio dell’autore è lasciar agire la tradizionale, salutare idiosincrasia dell’economista nei confronti dell’elemento ideologico, ovunque esso affiori (anche in temi apparentemente marginali, come la storia dell’inesistente premio Nobel per l’economia).
Se possiamo dare un suggerimento all’autore è di coltivare sempre di più quella spregiudicatezza e quella sprezzatura intellettuale indispensabili in questo genere poco formalizzato (proprio perché manca la sponda della forma conclamata). Si avverte, qua e là, una mancanza (tutta francese) di determinazione, come se rischiare un giudizio «forte» andasse a scapito dell’«oggettività» del discorso. La scrittura di Francesco Magris è tutta orientata verso la franchezza, il coraggio, la corrosività.

Deve solo de-francesizzarsi un po’, e avremo un saggista di prim’ordine: razza di cui abbiamo bisogno, oggi, come del pane.

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