Sarà anche vero che Franco Battiato ha cominciato a dipingere tardi e, come più volte da lui sostenuto, «sfidando violentemente me stesso», però che pittura ci ha lasciato. Avrebbe compiuto oggi 78 anni, da due non è più con noi, eppure Battiato, non solo con la sua musica ma anche con la sua arte, è qui a ricordarci che La realtà non esiste, come recita il titolo della mostra che Velasco Vitali cura da sabato e fino al 9 luglio nello Spazio Circolo di Bellano, in provincia di Lecco, un borgo che avrebbe potuto essere al centro di qualcuno dei calembour del maestro siciliano. Con Vitali, pittore e scultore raffinato che ha conosciuto e frequentato Battiato («ma non così tanto come avrei voluto») osserviamo una quindicina di luminosi dipinti, oli su tavola a fondo oro e oli su tela, che ora si trovano disposti in mostra quasi in forma devozionale, per essere contemplati da seduti, su tappeti afgani, anatolici e mauritani, prezioso prestito di Altai, galleria che possiede le ultime collezioni al mondo di tappeti primitivi di origine nomadica. Si sta come in un villaggio di frontiera a vedere che passano i treni per Tozeur e invece no, siamo a pochi passi dalle sponde del lago di Lecco, e vediamo volti, adulti e bambini, reali e immaginari, che Franco Battiato («in disegno a scuola prendevo uno», disse in un'intervista a Pietrangelo Buttafuoco), ha composto con sapienza su tela. «Sono opere che parlano chiaro», dice Vitali. Lo fanno con un linguaggio unico nella sua capacità di fondere i contorni delle icone bizantine con il fondo oro dei pittori senesi e la sacralità della posa di Antonello da Messina. «Amava anche Nicolas De Staël, un pittore non così noto ai più», commenta Vitali (comprensibile gli piacesse: l'artista russo-francese era rimasto ipnotizzato dalla luce di Agrigento, cui aveva dedicato alcuni dei più significativi lavori, prima di togliersi la vita a metà degli anni Cinquanta).
Potremmo dire che questa mostra (accompagnata stasera dalla proiezione del docu-film La voce del padrone di Marco Spagnoli) è un omaggio alla perseveranza di Battiato che non si è accontentato delle sue fortunate intuizioni musicali, ma ha cercato nella pittura una nuova forma di meditazione e intuizione sul mondo. Gli inizi non sono stati facili: «Il primo anno fu di sofferenza ha raccontato lui stesso - Talvolta stavo al cavalletto anche per dieci ore di seguito e la sera disfacevo tutto, come Penelope». Con l'umiltà che è propria dei grandi, si è applicato con metodo e così, dalle prime faticose frequentazioni degli anni Novanta, la pittura è diventata solida compagna di vita fino alla fine dei giorni. «Credo che questa forma d'arte sia nata in Battiato dall'urgenza di rimettersi in discussione. Il primo disegno contiene tutto il suo bisogno di rappresentazione», suggerisce Vitali. Lo abbiamo sotto gli occhi all'ingresso della mostra: è poco più di uno schizzo tracciato a biro su carta che l'artista fece per suggerire a Luca Volpatti, architetto e scenografo, come allestire la casa del siciliano per la scena del secondo atto di Gilgamesh, allestita poi a Roma nel giugno del '92. Un bozzetto (in mostra troviamo anche oggetti originali di scena) che gioca sulla falsa prospettiva. E sul crinale tra il vero e il verisimile si muovono i volti dipinti, ora esposti a Bellano: provengono tutti da collezioni private, appartengono ad amici cui Battiato regalava i ritratti. Il suo metodo di lavoro? All'inizio l'immaginazione pura, da cui nascevano personaggi mai esistiti se non nella sua testa (e quindi più reali del vero) come lo splendido Mistico Ribelle o il Giapponese. Poi Battiato approda al paradosso della mistificazione: copia da fotografie. Sceglieva tra gli scatti di conoscenti (spesso dei loro bambini, come nel caso della figlia degli attori Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni) e si richiudeva in studio per ore, in silenzio. «Lo spazio della fotografia era per Battiato come la metrica per un poeta: uno schema, non un vincolo, anzi uno spunto per sviluppare la creatività», commenta Velasco Vitali. Annullato ogni elemento di ambientazione, le figure appaiono ritagliate su un fondo piatto che replica quello spazio assoluto caro a tanta arte bizantina e diventano così icone contemporanee. Ognuno di noi è sacro, pare dirci Battiato, che elabora come ci indica Vitali uno stratagemma solo in apparenza naif, quello di disegnare il fondo dell'occhio bianco, che è invece una soluzione estetica straordinaria «per elevare l'umano, per portarlo altrove».
Con sorprendente coerenza, Franco Battiato ha realizzato per trent'anni dipinti che più alla Battiato di così non si può, giocando anche a qualche piccolo depistaggio.
Allergico al sistema dell'arte (quando il suo nome fu associato a maldestre operazioni commerciali, si è subito smarcato), ha sempre regalato i dipinti agli amici, spesso senza neppure firmarli o scegliendo di farlo con lo pseudonimo di Süphan Barzani: «Süphan è un vulcano inattivo in Armenia, Barzani è il nome di un condottiero curdo morto esule negli Stati Uniti: insieme fanno un nome che suona tanto da mistico orientale dell'anno Mille», chiosa Vitali. Del resto, come duettava con Alice, rivisitando la canzone di Claudio Rocchi, per Franco Battiato La realtà non esiste.
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