Metodico come un impiegato che tutto fotocopia e archivia. Alla ricerca del successo. Bisognoso di denaro, nonostante si sia sempre sostenuto fosse ricchissimo di famiglia. Appartato, ma non isolato come vuole la leggenda. In contrasto con i falsi miti della cosiddetta controcultura. Lontano dal mondo dei Beat, di cui pure era stato parte in qualità di maestro. È il William Burroughs inedito che esce da Rub Out the Words: The Letters of William Burroughs 1959-1974, una scelta di lettere dell’autore del Pasto nudo curata da Bill Morgan ed edita da qualche giorno negli Usa (Harper Collins, pagg. 480, 35 dollari; nel 1993 uscì il primo volume dedicato agli anni 1945-59).
Nel 1959, Burroughs ha appena pubblicato il suo libro più celebre, il Pasto nudo appunto, presso una piccola casa editrice francese, l’Olympia Press. (Per la prima edizione inglese, sensibilmente diversa, bisognerà attendere il 1962). In mezzo c’è la scoperta del cut-up: una tecnica letteraria che consiste nel ritagliare un testo già esistente (frasi o singole parole) e nel rimontarlo secondo una nuova sequenza, non sempre rispettosa della logica lineare. Un modo di archiviare la narrazione e di dichiarare obsoleto il linguaggio, così come fecero, in altro modo, le avanguardie del periodo? Così si dice. Ma queste lettere, in cui si assiste proprio alla nascita del cut-up (re-inventato dal pittore Brion Gysin, compagno non solo di scorribande culturali di Burroughs, sulla scia di Tristan Tzara) raccontano un’altra storia. Infatti, scopriamo, il cut-up serve per enfatizzare il valore della parola, rivelandone il significato nascosto. E comporta una fatica enorme per Burroughs: i libri scritti con questa tecnica, da Soft Machine a Nova Express, sono figli della selezione di migliaia di pagine realizzate con quello stile e richiedono una stretto controllo editoriale per evitare il caos.
Noto come Grande Tossico, Burroughs non è un «avvocato» del consumo di droga. Attratto da qualsiasi cosa lo proietti al di là della realtà sensibile, inclusa la «roba», in sostanza disprezza la cultura (si fa per dire) dello sballo. E tira mazzate a Timothy Leary, alfiere dell’LSD, dopo essere stato coinvolto in prima persona nelle sperimentazioni con gli allucinogeni condotte da Leary stesso ad Harvard. Nel 1961 scrive ad Allen Ginsberg: «Ho incontrato molte volte Leary, il suo progetto mi sembra totalmente male indirizzato... Non ha alcun interesse scientifico». E ancora, in una lettera a Gysin: «Leary è diventato pazzo. Dà i funghi allucinogeni a ragazze, tassisti, camerieri, a chiunque». Con Leary finiscono nel mirino anche i «rivoluzionari» degli anni Sessanta. Al figlio Billy jr scrive: «Credo che le sparate politiche di Jerry Rubin e Abbie Hoffman siano utili solo a loro stessi. Guarda alla pubblicità che si è fatto Leary». Non c’è guru che venga risparmiato. Inizialmente attratto da Scientology, in poco tempo perde ogni illusione. Il fondatore Ron Hubbard è descritto come un impostore e un ladro: «Perché tieni tutti all’oscuro? Deve aver rubato le idee a qualcuno... Sono sicuro che ci sia una fonte nascosta dietro al suo materiale. Probabilmente qualche scrittore di fantascienza».
Tra i corrispondenti spicca Truman Capote, reduce dal successo di A sangue freddo, il romanzo-inchiesta sul massacro di Holcomb, Kansas, a opera di due spiantati poi condannati a morte. Burroughs gli manda una lettera di insulti per non aver difeso a sufficienza gli assassini dalla sentenza capitale: «Hai messo le tue qualità al servizio di chi vuole trasformare l’America in uno stato di polizia, nascondendo i motivi per cui nasce la criminalità e spingendo sul pedale della repressione...
Hai buttato via il tuo talento... Goditi il tuo sporco denaro, hai chiuso, non scriverai più neppure una frase del livello di A sangue freddo. Come autore sei finito». Burroughs comunque resta Burroughs, capace di colpi di testa sorprendenti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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