Eleonora Barbieri
Il successo sul lavoro, i problemi con il capo o le difficoltà a collaborare con i colleghi non dipendono soltanto dal carattere o dalla fortuna: la carriera è influenzata anche dal «Fattore padre», che può favorire od ostacolare gli affari dei figli, non in senso materiale, ma inconscio, causando dei blocchi psicologici che impediscono la serenità professionale. Barriere superabili, secondo lo psicologo Stephen Poulter: basta individuare la categoria cui appartiene la figura paterna e prendere consapevolezza degli effetti sulla propria personalità e sulla vita lavorativa.
Nessuna conflittualità freudiana, Edipo rimane ai margini: lo studioso californiano, che ha raccolto le sue teorie in The Father Factor (sottotitolo: «Come l'eredità paterna influisce sulla tua carriera», edizioni Prometheus Books) si occupa soprattutto di business e di come garantirsi una carriera sfolgorante, nonostante un genitore ingombrante o, magari, proprio per merito suo. Poulter ha lavorato per vent'anni con oltre duemila famiglie e, dopo avere delineato il profilo del papà ideale, ora si dedica alla sua influenza sul lavoro dei figli, un argomento che «è ancora in gran parte un mistero - ha spiegato - ma che ha un impatto enorme, perché tutti siamo figli e figlie di qualcuno». Persino chi non ha mai conosciuto il proprio padre, sostiene Poulter, «ne ha conosciuto il mito, l'odio della madre o, almeno, la propria rabbia nei suoi confronti». Il «Fattore P», quindi, è ineludibile e agisce sul luogo di lavoro, determinando successi e fallimenti e, in alcuni casi, anche il mestiere ideale. Le categorie possibili, secondo lo psicologo, sono cinque e soltanto l'ultima, quella del padre-mentore è positiva e, quindi, premessa per un lavoratore davvero equilibrato: tutti gli altri figli, per quanto in alto possano arrivare, prima o poi dovranno confrontarsi con qualche ostacolo nascosto da rimuovere.
La prima figura è quella del padre di successo, competitivo e alla ricerca continua della perfezione, anche nei propri figli, che difficilmente si sentono all'altezza, tanto da reagire in maniera contraria: sono persone che, spesso, sul lavoro combinano poco, sfruttando al minimo le proprie potenzialità e raggiungendo scarsi risultati. Non sono dei «falliti»: sono soltanto bloccati, imprigionati dall'ideale paterno. Chi ha vissuto con un padre «bomba a orologeria», invece, può essere straordinariamente accondiscendente: riesce a piacere agli altri, a convincere i colleghi e ad appianare i conflitti e, quindi, è perfetto come negoziatore o direttore del personale. Una positività apparente, perché un papà irascibile e violento rende i figli insicuri e restii a dare fiducia. Così, gli eredi di un padre assente (sia fisicamente, sia dal punto di vista emotivo) possono ottenere grandi successi, ma sopportano poco l'autorità, soprattutto maschile, sono aggressivi e, quindi, difficilmente riescono a integrarsi in un gruppo: sono dei solitari, che lavorano bene soltanto in autonomia. Il rapporto con i colleghi è difficile anche per chi abbia avuto un papà «passivo» - un uomo calmo, coerente, gran lavoratore, mai in conflitto ma, allo stesso tempo, incapace di instaurare un legame d'affetto e di amore. I figli non hanno scatti di rabbia ma, come il papà, non riescono a esprimere le proprie emozioni e, quindi, a entrare in relazione con gli altri, penalizzando così la carriera e la vita sul luogo di lavoro.
L'equilibrio e la serenità professionale sono l'eredità del padre compassionevole-mentore, che ama il figlio per quello che è, aiutandolo a diventare indipendente, sicuro di sé e delle proprie capacità: sul lavoro, una persona che non esita a cogliere le opportunità, anche a costo di qualche rischio e che ha un rapporto di stima con i colleghi. Un ideale, anche per lo stesso Poulter, che ha ammesso di avere un padre così assente da non aspettarsi neppure una telefonata dopo l'uscita del libro.
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