Così i giudici sabotano il buon senso

La sentenza di Melfi ha dato ragione agli operai accusati di aver impedito l'attività in fabbrica. Un copione che in Italia si ripete da trent'anni: colpa di una legislazione fatta per un mondo che non c'è più 

Leggete questa storia. Ma cercate di mantenere i nervi saldi, perché c'è materia da innervosire un santo. A inizio luglio viene indetto uno sciopero nel­la fabbrica Fiat di Melfi. Su 1.750 dipendenti, più o meno cinquanta si astengono dal lavoro. Tra di lo­ro ci sono tre operai, di cui due sindacalisti attivi, che impediscono agli altri di lavorare: lo fanno bloccan­do un carrello robotizzato che porta­va materiali ad altri operai che non avevano la minima intenzione di in­crociare le braccia. La fabbrica ov­viamente si inceppa: nonostante so­lo una minima parte dei lavoratori volesse protestare. A metà luglio la Fiat prende carta e penna e licenzia i tre operai, colpevoli secondo la dit­ta, di aver sabotato il lavoro di 1.700 persone.

I lavoratori fanno ricorso e un giu­dice dà loro ragione. È un magistra­to del lavoro che allo stesso tempo riesce a compiere due miracoli: in sole due settimane scrive un'ordi­nanza che impone l'immediato re­integro dei tre operai in azienda e in un solo istante smentisce la prover­biale lentezza della nostra giustizia. Il magistrato (un tempo si chiama­vano pretori del lavoro) non può ap­pur­are l'effettiva esistenza del sabo­taggio (come egli più o meno scri­ve), ma è in grado di giudicare anti­sindacale il comportamento della Fiat e dunque parte l'immediato re­i­ntegro dei dipendenti ingiustamen­te liquidati. La storia non finisce qua. La Fiat ovviamente non può fa­re altro che chinare il capo e ci man­cherebbe altro: è una sentenza di un magistrato. Restituisce lo status giu­ridico ai tre dipendenti, ma preten­de che non mettano più piede là, vi­cino ai quei robot che l'azienda so­stiene abbiano sabotato. Insomma li paga, ma non per lavorare. Venga­no pure in azienda, timbrino il loro cartellino, ma rimangano confinati nella saletta sindacale. Apriti cielo. Si viola un diritto democratico e bla­bla.

Viene abbastanza naturale inseri­re la que­relle nello scontro che si tra­scina da mesi tra la dirigenza Fiat e i sindacati, tra Marchionne, un tem­po idolo della sinistra, e il pool dei duri e puri della Fiom. Ma non è co­sì. Se permettete, in questo caso, del­la Fiat importa un fico secco. E men che meno degli attori specifici di questa vicenda. Il sangue al cervello ci arriva perché la storia dei Tre di Melfi che oggi riempie le pagine dei giornali, negli ultimi trent’anni ha riempito le scatole di tutti gli impren­ditori italiani. Vorremmo ricevere una (intesa come singola, unica, so­litaria) lettera di un imprenditore che si sia visto riconoscere come le­gittimo un suo licenziamento per giusta causa da un magistrato del la­voro in primo grado. In Italia non so­lo non si può licenziare ( parliamo di imprese con più di quindici dipen­denti), ma è anche possibile rubare in azienda, senza che ciò cagioni una sana pedata nel posteriore.

Qualche anno fa la polizia filmò grazie a delle telecamere una serie di dipendenti degli aeroporti di Mal­pensa intenti a rubare nei bagagli. Furono subito licenziati. Sennon­ché un magistrato di Busto Arsizio li reintegrò. Grazie a Dio e all'Enac in quel caso il signore dalla mano lesta non riuscì a rimettere piede vicino ai nastri trasportatori perché gli fu negato il patentino di sicurezza per entrare negli aeroporti. Un escamo­tage per aggirare la sentenza.

Certo poi arriva il secondo grado e nella maggioranza dei casi, il giudi­ce rimette a posto le cose, come nel­la vicenda Malpensa. Ma il danno è fatto. Le aziende ottengono dai ma­gis­trati una velocità da Speedy Gon­zales nel caso dei reintegri dei lavo­ratori ( per Fiat neanche due settima­ne di istruttoria) e la normale lentez­za­della giustizia civile per vedere di­battute le proprie ragioni. Così va il mondo: ma non le aziende. Non la Fiat e non quelle migliaia di impre­se itali­ane che davanti a un magistra­to del lavoro hanno torto per defini­zione.

Sia chiaro, la colpa o il merito a se­conda dei punti di vista, non è solo dei magistrati. I signori applicano la legge e soprattutto quel principio ot­toc­entesco per il quale essendo il la­voratore contraente e parte debole per legge, diciamo così, si trova su un gradino più alto nella nostra giu­stizia. È un principio pazzesco per il suo anacronismo. Ogni giorno apriamo milioni di dibattiti sull'eti­ca e sulla sostanza della nostra eco­nomia, ma mai abbiamo avuto il co­raggio di ragionare sulle consegue­n­ze giuridiche che dovrebbero nasce­re dal cambiamento del nostro mo­dello produttivo. È finita la fabbrica «taylorista», ma i principi di tutela dei lavoratori sono stati modellati su di essa. Un dipendente contrat­tualizzato della Fiat ha un milione di tutele in più rispetto a un parasu­b­ordinato da quattro euro o un pre­cario a rotazione.

I Tre di Melfi ci raccontano non tanto il sabotaggio di un

carrello ro­botizzato, ma il sabotaggio fatto ai danni dei nostri cervelli da trent’an­ni di leggi sul lavoro pensate per un mondo che non c'è più. E che proba­bilmente non avevano gran senso neanche quando furono votate.

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