«Guarda, è stato un autentico gesto di sfida, nessuno si aspettava qualcosa del genere, doveva essere un giro super controllato, ma quando siamo arrivati davanti al tempio di Jokhang e le nostre guide hanno incominciato a descriverlo come un simbolo dell’unità nazionale ci siamo ritrovati circondati da quel gruppo di monaci, erano giovani, saranno stati una trentina, prima strillavano in tibetano, poi quando si sono resi conto che eravamo stranieri hanno continuato in mandarino. “Il Tibet non è libero, il Tibet non è libero - ci gridavano -, non credete a quelle guide, vi raccontano soltanto bugie, vi hanno portato qui per ingannarvi, sono abituati a mentire”». Al telefono Callum McCleod, corrispondente da Pechino di Usa Today, ha ancora la voce rotta dall’emozione. È arrivato a Lhasa mercoledì sera con il gruppo di 19 corrispondenti stranieri a cui è stata concessa la prima visita nel capoluogo dopo gli scontri del 12 marzo.
Nelle aspettative e nei programmi delle autorità cinesi quei 19 giornalisti devono diventare il megafono della verità ufficiale, gli interpreti della versione che Pechino vuole offrire al mondo. Davanti a quel tempio, santuario simbolo della fede tibetana, si scatena l’imprevisto. «Siamo rimasti in mezzo a loro per una decina di minuti, erano pronti a tutto pur di raccontarti la loro verità, alcuni parlavano e intanto scoppiavano a piangere, a guardarli sapendo quanto rischiavano ti si stringeva il cuore. Sapevano del nostro arrivo perché la stampa locale aveva scritto di un gruppetto di giornalisti stranieri appena arrivati a Lhasa e dunque si erano preparati... È stato veramente strabiliante assistere al loro coraggio, guardarli sfidare la polizia e le forze paramilitari schierate attorno per offrirci un punto di vista diverso dalla verità di Stato».
Secondo il corrispondente dell’Associated Press, Charles Hutzler, anche lui testimone dell’imprevisto scacco alla propaganda di stato, i monaci hanno agito quando si sono accorti che il tempio era stato invaso da finti religiosi, mandati da Pechino per raccontare una verità addomesticata. «Erano infuriati per il tentativo di piazzare dentro il santuario dei monaci incaricati di parlare con noi - racconta Charles -. “Non sono veri credenti, ma membri del partito - ci urlavano -, sono tutti funzionari del governo, li hanno organizzati e mandati qui per raccontarvi che è stato il Dalai Lama ad organizzare tutto, vogliono farlo fuori, ma il Dalai Lama non ha fatto niente... Siamo prigionieri del tempio – urlava un altro -, non ci fanno neanche uscire, dicono che vogliamo distruggere tutto, ma non abbiamo fatto niente”».
Né Hutzler, né McCleod sanno esattamente che prezzo stiano pagando quei monaci per tanto coraggio. «Poco ore dopo – spiega Huzler - l’intera zona intorno a Jokhan aveva cambiato aspetto, era letteralmente sigillata da militari con gli elmetti e i bastoni, gli abitanti della zona erano gli unici ancora autorizzati ad entrarvi».
Se chiedi a McCleod quale possa essere il destino di quel manipolo di coraggiosi la voce cambia tono, s’incrina per la commozione. «Purtroppo molti temono che quei poveretti vengano arrestati, loro erano i primi a saperlo, uno ci ha anche detto che sarebbero finiti in galera “ma non possiamo evitare di farlo - ripetevano -, dobbiamo parlarvi per far sapere al mondo la verità”». Quella verità, come racconta Geoff Dyer, corrispondente del Financial Times, non dura più di dieci minuti.
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