«Così le islamiche sfidano l’estremismo»

Non occorre andare fino in Indonesia per trovare donne musulmane che sfidano le tradizioni. Succede anche in Italia, come spiega al Giornale Martino Pillitteri, coordinatore di Yalla Italia, inserto mensile del settimanale Vita Magazine e autore di Quando le musulmane preferiscono gli infedeli, (Mursia). Le figlie degli immigrati in Italia stanno rompendo molti tabù, gli stessi contro cui si è scontrato l’autore nei suoi due anni di vita al Cairo, raccontati in un libro che fotografa le difficoltà di una storia d’amore tra un cristiano e una musulmana. Lei è del Cairo, lui è di Milano. Si incontrano e si innamorano a New York. Lui fa le valigie e si ritrova catapultato da Manhattan alle polverose rive del Nilo, in vista di un matrimonio che prevede, nelle speranze della famiglia dell’amata, la sua conversione. Dopo la non facile full immersion nell’islam mediorientale, l’autore torna a Milano, dove incontra l’islam europeo, quello delle ragazze con il velo e l’accento lombardo: l’islam delle seconde generazioni.
Nell’Italia dell’immigrazione si parla molto di coppie miste. Amori impossibili?
«Molte giovani tunisine e marocchine mi contattano, raccontandomi le loro relazioni con italiani. Oggi, molte musulmane di seconda generazione non pretendono dai fidanzati la conversione, come vorrebbero i genitori. È un passo avanti: il Corano infatti non vieta i matrimoni misti».
Si va verso una generazione di donne islamiche più integrate?
«La massa critica di ragazze musulmane nate in Italia è in grande crescita, ma i fanatici ci sono e sono sempre più agguerriti».
Sei ottimista sul futuro dell’integrazione in Italia?
«In Egitto ero molto scettico sull’islam, vedevo una deriva integralista. Tornato qui, ho cambiato idea quando ho incontrato i figli e le figlie degli immigrati. Loro hanno rotto regole non scritte: l’uomo ha più importanza della donna; la prominenza del gruppo sul singolo; la legge degli anziani. Hanno infranto tabù. Credono nei matrimoni misti senza conversioni. Non è un islam etnico quello dell’immigrazione, ma vissuto nella sfera del personale».
Limitare la religione alla sfera del privato aiuta l’integrazione?
«La partita si gioca su come si comunica la religione nella sfera sociale. Questo è quello che ho visto al Cairo, dove gli imam hanno un copyright che tutti devono seguire. È un modo di dire: “Io faccio parte del vostro gruppo”. Ma qui, le seconde generazioni sono pronte a rischiare. È l’islam delle 2G contro l’islam delle 2C: le seconde generazioni contro gli imam commercialisti e commerciali. Molti imam, anche qui, sono diventati fiscalisti della fede. “Vuoi la salvezza eterna? Vestiti così e prega così”. Vendono il loro prodotto, ma le seconde generazioni non abboccano più».
E allora perché anche qui si diffonde il velo integrale?
«Veli, niqab, sono fenomeni passeggeri. L’islam ha la capacità di inserirsi nei vuoti economici, sociali, identitari, religiosi. È la sua forza».
Lavori con molte ragazze delle 2G. Cosa dicono del dibattito sul velo integrale?
«Le figlie di immigrati che conosco sono contro “i barbuti”, gli imam estremisti, come li chiamano loro, contro gli estremisti del velo integrale. Ma esiste uno zoccolo duro: giovani ricattate socialmente dai genitori, che vivono ancora in famiglia e per avere una vita tranquilla mantengono certe regole. Le 2G non sentono sulla loro pelle tutti i dibattiti che passano sui giornali, velo, poligamia eccetera. La loro preoccupazione è la cittadinanza. Il processo identitario si scontra con la burocrazia e subentra la frustrazione. Così si perde il processo di italianizzazione.

Non è il velo a fare la differenza, è il non potere andare all’estero perché non hai il passaporto o non poter lavorare perché hai documenti in scadenza. Se l’islam fanatico si inserisce in tutti gli spazi vuoti, l’importante è creare un’alternativa e io credo nelle ragazze delle seconde generazioni. Occorre passare loro la palla».

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