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Così Jeffries inquadra le anime degli ultimi e ne cristallizza la dignità

Il fotografo inglese con i suoi primi piani dà voce a chi non ce l'ha e riscopre l'umano

Così Jeffries inquadra le anime degli ultimi e ne cristallizza la dignità

Non ho memoria di quando si sia materializzata in me l'idea di presentare a Milano le fotografie di Lee Jeffries. Forse tutto ebbe origine quando questo empatico autore inglese decise di regalarmi la copertina del numero zero di EyesOpen! Magazine, testata di cultura fotografica che ho fondato e che dirigo dal 2014. Esordivamo quando la crisi dell'editoria si era già infiltrata tra le pieghe di qualsiasi pubblicazione, decidevamo di farlo mettendo in prima pagina non una di quelle fatate modelle con la pelle piallata da Photoshop che attirano lettori, ma un'anziana signora inglese dalle guance appassite. Il suo sguardo azzurro chiaro bucava il foglio, è ancora oggi il simbolo iconico della rivista. «Sguardi» era anche il tema di quel numero, filo conduttore astratto sul quale sviluppare molteplici narrazioni e, nel merito, Lee Jeffries aveva qualcosa da dire.

Il suo lavoro non piace a tutti, dettaglio che ha aggiunto difficoltà alla concretizzazione della mostra. Non è un fotogiornalista, non è passatemi l'iperbole nemmeno un ritrattista. Le sue opere hanno più a che fare con la spiritualità, sono iconografia religiosa cristiana nella sua forma più classica, ricavata da un modo di porsi che pochi al mondo sono capaci di affrontare. A galleristi, collezionisti, colleghi, non piace la sua postproduzione carica, di maniera, però il caso vuole che abbia un discreto numero di emuli. Non attraggono i suoi temi, considerati artificiosi, invendibili: chi è disposto ad appende in salotto un barbone? Con questa accezione denigratoria, che vi invito a non usare mai, liquidiamo le persone senza fissa dimora che sopravvivono ai margini della società e dei quali Lee Jeffries narra le storie.

In conclusione, per tutte queste ragioni e per molte altre, era essenziale del coraggio per mettere in piedi quello che vedrete al Museo Diocesano di Milano da dopodomani. Ed è stata necessaria la lungimiranza della sua direttrice, Nadia Righi, che con me ha lavorato in questi tre anni di gestazione, partendo dalla ricerca sponsor per finanziare il progetto, fino all'ultima delle luci appese a illuminare quei volti potenti. Una cinquantina di pezzi in bianco e nero e a colori, selezionati con Jeffries per fare emergere il senso più intimo racchiuso nel suo sorprendente lavoro, proteso verso il prossimo che incontra per strada al solo scopo di farcelo conoscere. Il suo percorso come autore è iniziato nel 2008, dopo un episodio che lo cambiò per sempre: lui, di professione contabile e fotografo autodidatta, la sera prima di correre la maratona di Londra uscì a scattare qualche foto di strada. L'incontro con una ragazza senza fissa dimora lo segnò e lo travolse. Finì per innamorarsene e per recarsi a Roma per esaudire un ultimo desiderio della madre di lei, malata di cancro. In Vaticano fece benedire il suo rosario e i suoi sentimenti riguardo all'amore e alla morte cambiarono per sempre. Un'esperienza che ancora oggi lo influenza. Il susseguirsi dei suoi volti fieri, talvolta irriverenti, dalle espressioni composte per sostenere il milione di universi che hanno attraversato, ha a che fare con la fede, con la compassione che prova. I soggetti emergono dal buio profondo, inondati da una luce caravaggesca che restituisce ogni segno sulla pelle, ogni dolore incarnito proprio sotto. Tanti, nelle sue opere, sono i rimandi alla pittura antica: Tiziano, Rembrandt, Bernini, il Merisi sembrano aver guidato una ricerca fatta di inquadrature ravvicinate e pennellate forti. Un linguaggio di contrasti, non nuovo nella fotografia contemporanea, intriso però di un paio di ingredienti che sono la sua cifra autografa: la prossimità con i soggetti e la pietà per loro.

I tagli che sceglie spiegano quale sia l'approccio solitario con il quale si presenta agli esseri umani. Riprese frontali, dove nulla è rubato restando a distanza come è consuetudine nella street photography, ma lo studio di un'interazione volta a stabilire fiducia, prevedendo l'istante eterno che trasforma tutto in una faccenda estremamente personale. Usa un obiettivo corto, 28 millimetri, lo zoom sono i suoi piedi. Percorre le strade di Los Angeles, Manhattan, Seattle, Londra, cercando di anteporre le necessità di chi incrocia sul cammino alla sua esigenza di portare a casa uno scatto. Li chiama per nome, anche dopo, anche nelle didascalie in questa esposizione prodotta per il pubblico italiano. Ciascuno è un momento condiviso, è tempo trascorso insieme, non solo una faccia dentro al mirino di una fotocamera. Chi dorme sui marciapiedi non si fida degli estranei, ha difficoltò a digerire l'intrusione di un fotografo scrutante, gli urla contro. Lee ha frequentato ognuno di loro, ha dormito per terra, spesso li ha aiutati ben prima di ritrarli. In qualche modo attende il ricomporsi della fiducia reciproca, quella che fa abbassare le difese di entrambi per metterli in comunicazione. Il risultato è un equilibrio di luci e ombre che trasmettono speranza e sconforto: da un lato il senso del Mistero, di Dio ritrovato sulla faccia degli altri, dall'altro l'inferno, il loro, il suo, il nostro. l filo che guida l'intera narrazione e che trabocca di riferimenti spirituali, è, appunto, lo sguardo.

Fermato come quel punto di contatto che Michelangelo Buonarroti bramava nella Creazione di Adamo, come se il suo cinquecentesco Giudizio Universale si fosse materializzato sui nostri marciapiedi per ricondurci nuovamente al vero senso dell'umanità.

*Curatrice della mostra

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