Due grandi installazioni, fatte di tanti oggetti, impossibile contarli, uno sopra allaltro, che vanno a costituire un codice linguistico nuovo. I colori omogenei e tenui, mai forti e scanditi. Si tratta della mostra ospitata al Macro. Una personale di Nahum Tevet, artista israeliano. È un lavoro razionalistico il suo, che cerca manforte nellarchitettura. Le sue opere, come afferma egli stesso, «partecipano alla dissoluzione del luogo in cui vengono esposte, alla propria separazione da esso, si parcheggiano lì solo temporaneamente, come uno stormo sul punto dinvolarsi altrove».
E in effetti questa sensazione di precarietà è presente. Sia perché paiono lì poggiate solo temporaneamente, ma anche perché sembra che un semplice soffio possa far cadere tutta la struttura così architettonicamente pensata. Come nel famoso gioco del domino, dove al tocco di un tassello cade tutto, un pezzo dietro laltro. Il lavoro di Tevet è davvero suggestivo, e le sensazioni che si provano nel vederlo sono molte. Intanto una voglia, inutile dire di no, di toccare, di vedere se realmente ogni pezzo è attaccato allaltro o se invece la precarietà la fa da padrona, poi la necessità di camminare in punta di piedi, come se un impercettibile rumore possa distruggere quel castello di carte. Una calma dentro, e un caos fuori, se vogliamo usare un ossimoro in voga. A fronte di una stasi tanto evidente quanto necessaria dellinstallazione infatti, fuori dalle finestre invece la frenesia e i rumori di un cantiere in fermento continuo.
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