«Così lanceremo i nuovi talenti»

L’autore del manifesto sulla «cultura del fare» ci tiene a dare il buon esempio. E dunque, Davide Rampello, fa. Oggi per esempio, il presidente della Triennale ospita negli spazi di viale Alemagna il progetto «Mind», che sta per «Mila- network-design», un’iniziativa che coinvolge il Comune di Milano, il Museo di design e undici istituti di formazione della città. Obbiettivo del network, recita l’invito, attirare i migliori giovani talenti da tutti i Paesi del mondo.
Perchè, dottor Rampello, attirare talenti dall’estero, non sarebbe meglio promuovere i nostri?
«Questo lo facciamo già, ma sono convinto che si debba fare ancora moltissimo per valorizzare il «brand» di Milano come luogo “mentale“ in cui la cultura affianca l’impresa. Oggi qualsiasi designer del mondo voglia produrre oggetti di alta qualità ha le migliori possibilità per riuscire proprio nel nostro territorio. E aggiungo: chi viene a studiare qui, al Politecnico come nelle accademie, instaura un rapporto privilegiato con Milano che continua produttivamente anche dopo la laurea».
Si fanno spesso polemiche e dibattiti sui ritardi del nostro sistema formativo. Il design è un’isola felice?
«Io parlo di Milano e garantisco che qui esistono davvero delle eccellenze. Dai numerosi corsi che offre il Politecnico, alla Naba, allo Ied, alla Domus Academy, sono tutti istituti che offrono ottime opportunità non solo di apprendimento ma anche di applicazione della cosiddetta cultura del progetto. Il network che viene presentato oggi intendere fare sistema, come si suol dire, per ottimizzare l’offerta culturale. Poi guardi, più viaggio all’estero e più mi convinco che studiare nella nostra città ha un valore aggiunto per uno straniero, significa vivere il fascino dello “stile Milano“».
Che cos’è lo «stile Milano»?
«È l’espressione di un concentrato di creatività unica al mondo che, su un piccolo territorio, riunisce i maggiori attori dell’editoria, del design, della moda, della pubblicità e aggiungerei della formazione».
Un concentrato di cui la sua Triennale si è candidata come ambasciatrice...
«Non esageriamo. Di sicuro l’internazionalità è la nostra mission di oggi che ci porta ad essere un centro propulsore della cultura italiana, del design, dell'architettura, della moda, dell'arte, ma anche del mondo dell'impresa, del turismo e di tutto quello che rappresenta il Made in Italy nel mondo. A Incheon, in Corea, abbiamo già aperto un grande avamposto orientale di 2.800 metri. A maggio inaugureremo a New York e in ottobre a Shangai».
Con quali criteri avete scelto queste città e con che programmi?
«Sono “città-mondo“ in cui il made in Italy non può più manifestarsi solo con eventi sporadici, settimane o fiere. Serve invece una presenza costante e le triennali estere prevedono mostre, convegni ed eventi che danno immagine al meglio delle nostre piccole e medie imprese».
Tornando alla Triennale di Milano: presentate quasi un’evento al giorno. Non temete di confondere il pubblico?
«E perchè mai? La nostra identità è proprio nella pluralità dei linguaggi e dei contenuti. Ora, per esempio, abbiamo una mostra che ci invidiano anche in America su uno dei più grandi architetti del mondo. Contemporaneamente abbiamo “La città fragile“, sugli effetti sociali della globalizzazione; poi una mostra per i bambini dedicata al genio di Munari, poi...»
Un paio d’anni fa annunciò l’idea di una Biennale di fotografia per gli spazi dell’Ansaldo.

Ha cambiato idea?
«No, ma il progetto di una Triennale dedicata all’immagine doveva rientrare nei finanziamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Il governo ha tagliato i fondi».
Tra un anno scade il suo mandato alla presidenza di Triennale. Che intenzioni ha?
«Potrei chiedere di restare».

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