Cronache

Così Lauro annegò nel vino la vittoria di De Gasperi

Così Lauro annegò nel vino la vittoria di De Gasperi

Il 17 aprile del 1948 Mario e Lauro, entrambi portovenerini, si salutavano alla stazione di Napoli.
Mario, destinazione Porto Venere, tornava al paese per votare alle elezioni politiche più conflittuali e coinvolgenti del secolo scorso.
Nel mentre si sporgeva dal finestrino del treno, con le braccia alzate, indirizzava all'amico un saluto categorico: «tornerò vincitore, perché il trionfo è certo». Lauro, che non ne era mica tanto sicuro, rispondeva con un laconico: «Speremo». Si trovavano laggiù per lavoro: Mario, operaio specializzato in una raffineria, Lauro imbarcato su una nave in riparazione nel porto di Napoli.
Quel 17 aprile Lauro non riuscì a partire perché gli era stato assegnato il turno di guardia e gli crucciava tremendamente non poter fare la croce sul simbolo del «Fronte popolare», che, intorno alla barba di Garibaldi, riuniva comunisti e socialisti.
I due, durante il soggiorno in Napoli, si facevano compagnia e, spesso, Lauro si fermava a dormire nella villa in cui Mario riparava, nel tempo libero con la consueta e riconosciuta perizia, tubi ed accessori.
Peccato che i proprietari non la pensassero come loro, ma in definitiva si trattava poi di brave persone e la vittoria del Fronte non era sicura?
Così pensando i due amici discorrevano mentre, passeggiando, raggiungevano la stazione di Napoli.
Il gran giorno, il 18 aprile del 1948, arrivò e la gente, in un clima di forte tensione e di acceso scontro politico, prese d'assalto i seggi in una appassionante civile competizione che non ha avuto eguali nella storia del nostro Paese.
Sin dall'inizio dello spoglio le cose si misero male per il Fronte e la disfatta, perché di vera batosta si trattò, assunse proporzioni impensabili con la Democrazia Cristiana che conquistava la maggioranza assoluta.
Lauro che, il giorno dopo era in attesa alla stazione, vide Mario scendere dal predellino della vettura con il bavero del soprabito alzato (sembrava quasi febbricitante), e lo sentì mormorare: «che batosta che avemo piao, che fredo, che fredo..!». (Che batosta che abbiamo preso, che freddo, che freddo.)
Con questi mesti pensieri, cercando di consolarsi a vicenda, i due si avvicinavano alla villa quando sentirono un brusio che divenne un vociare sovrastato da canti, musiche e poderosi «Evviva».
I proprietari, che come sappiamo erano sostenitori della Democrazia Cristiana, ne stavano festeggiando, in tripudio, il trionfo.
«Che doloe, che figua» (che dolore, che figura)», disse Mario, mentre Lauro sbirciando, incuriosito, attraverso una fessura di una porta appena dischiusa, vide pararglisi dinanzi un'immensa tavolata colma di ogni ben di Dio, che, all'istante, gli fece dimenticare ogni cruccio. Vennero invitati a prender parte al banchetto, Mario rifiutava con sdegno (sarebbe stato un tradimento), ma Lauro, inebriato e stordito da quanto aveva potuto vedere, esclamava: «Mario, perso avemo perso... se podesimo fa quarcosa pe cangià e cose lo faiemo, ma a sto punto ne podemo fa ciù niente,.. avemo fame, armeno mangemo!» (Mario, perso abbiamo perso,... se potessimo fare qualcosa per cambiare le cose lo faremmo, ma a questo punto non possiamo fare più niente.. abbiamo fame, almeno mangiamo!).
Ma lui, duro e puro, non si faceva convincere e si ritirava nella sua camera mettendosi a letto, mentre a Lauro non pareva vero di consolarsi con spaghetti, risotti, arrosti, salumi, formaggi, dolci, pasticcini e spumante.
Quando si levava il grido «W De Gasperi», Mario si copriva le orecchie ferite da tanto scherno con due ciumassi (cuscini) e Lauro, per non essere costretto all'applauso, si faceva trovare con le mani occupate dal bicchiere e dalla forchetta.


Quella volta, a Napoli, per il compagno Lauro «più che il dolor, poté la gola».

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