Così Nichi Vendola conquistò il Parlamento

Caro Granzotto, a proposito del bluff Vendola, vorrei che ricordasse agli amici lettori del Giornale il primo approdo in Parlamento del Governatore pugliese. Dato che forse molti si meraviglieranno di sentirlo parlare di urne e candidature alle primarie Pd come se non ci fosse in carica un governo democraticamente eletto, e non con un termine a piacere di Nichi Vendola, si capirà meglio in quale conto tenga il nostro la volontà degli elettori, considerato che nonostante si fosse proceduti al riconteggio delle schede elettorali e fosse risultato sconfitto dal candidato all’epoca di Alleanza Nazionale, il nostro rimase bellamente in Parlamento grazie al voto dei suoi amici in maggioranza nella Commissione per le elezioni che aveva rilevato il clamoroso errore. Potrebbe rispolverare dagli archivi della sua memoria e dagli archivi parlamentari questa storiaccia che faccia capire di quale clamoroso bluff stiamo parlando e a chi è stata colpevolmente lasciata dal centro-destra la gestione politica di una Regione italiana?
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Non faccio fatica, caro Maddaloni, visto che quella storiaccia l’ho ricordata almeno un paio di volte. E poiché repetita iuvant, orpo se iuvant, non mi tiro indietro e la racconto di nuovo, perché si sappia quanto il «Masaniello delicato» (molto delicato) Nichi Vendola tiene in cale la volontà popolare. I fatti: nelle elezioni del ’94 una pila alta così di schede favorevoli ai candidati Felice Trotta (An) e Giuseppe Galati (Ccd) furono dagli scrutatori con più di due narici giudicate nulle. Presero pertanto la strada per Montecitorio i secondi eletti, Nichi Vendola (Rifondazione) e Italo Reale (Verdi). Trotta e Galati fecero ricorso alla Giunta per le elezioni la quale, dopo molto ponzare, sentenziò che le schede ritenute nulle erano invece da considerarsi valide. Vendola e Reale avrebbero dovuto, a quel punto, fare le valige per lasciar gli scranni a Trotta e Reale (che l’Unità, in quei giorni, definiva «i due trombati»). Ma ecco che gli onorevoli deputati, chiamati a ratificare il cambio della guardia, con voto a maggioranza ritennero invece che i due clandestini avessero pieno diritto di restare deputati, così accogliendo tra loro i due veri trombati e impedendo agli eletti di esercitare il mandato.
Il golpe prescindeva, ovviamente, da questioni di merito. L’allora governo Dini aveva alla Camera una maggioranza risicata e infischiandosene altamente delle regole democratiche eppure sbandierate ogni due per tre, quella brava gente non intese rinunciare, a favore della destra, poi, a quei due voti di sinistra. Il dovere di cronaca m’impone di aggiungere che, proclamati i risultati del voto, l’aula di Montecitorio prese l’aspetto di un ring. La force de frappe di An si scagliò infatti contro il blocco della sinistra menando a più non posso (Fini, questo è interessante, appena vide i suoi scendere sul piede di guerra, se la filò all’inglese, rendendosi irreperibile. Occhio non vede cuor che non duole?). All’indirizzo di Vendola, partirono anche insulti e cori - traggo dal verbale della Camera, abbiate pazienza - di «Frocio! Frocio! Frocio!».

Sedata la rissa, Polo e An si rivolsero al Capo dello Stato affinché dall’alto della sua autorità politica e morale sanasse l’antidemocratico colpo di mano consentendo a Felice Trotta e a Giuseppe Galati di attendere al mandato loro affidato dal popolo sovrano. Figuriamoci. Sa, caro Maddaloni, chi a quei tempi ricopriva la carica di presidente della Repubblica? Sì, proprio lui, Oscar Luigi Scalfaro. E il Ribaltonista fece orecchie da mercante.

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