Cultura e Spettacoli

Così paperi iellati e supereroi sopravvivono ai videogame

di Vittorio Macioce
Sono passati un po’ di anni. Quel giorno Raimondo Luraghi, professore di storia americana, lunghi capelli bianchi, da vecchio gentiluomo sudista, come un Robert Edward Lee capitato per caso a Roma, si mise a parlare della civiltà sioux, navajo e apache. Non era una cosa normale, di solito si sta lì a discutere le tattiche di guerra degli yankee a Gettysburg. E invece se ne uscì con una domanda assurda: qualcuno di voi conosce la cintura Wampum? Silenzio. Qualcuno azzardò: boh, sarà un jeans. Risate. Alzai la mano. È la cintura della grande fratellanza, un simbolo di pace e riconoscimento indossato dai capi indiani. Brusio. Ma che cavolo ne sai? Queste cose di solito non si imparano sui libri di scuola. Un mio amico e collega, oggi vice direttore romano di un quotidiano con cui condividiamo qualche lettore, parlò come al solito con il vocione e disse: «Tranquilli, è Tex». Aveva ragione, certe notizie le leggi e le prendi prima di tutto su Tex, poi magari ti studi il resto, la nascita delle corazzate, il ruolo dei free soilers nella disputa politica che frantumò l’America e la fece sanguinare, la zuppa Campbell, la grande depressione e «This land is my land».
Il fumetto è nella carne del Novecento, nei suoi occhi. Lo ha raccontato, ci ha soffiato sopra, lo ha reso leggero, scartavetrandone il cuore e la morale, da lì ci sono ritornati Esopo e Fedro, la mitologia di Omero, gli dèi, gli uomini e gli animali. Gli eroi di carta c’erano quando il cinema era ancora bianco e nero, prima della tv, prima dei cartoons, dei telefilm, prima di Lara Croft e delle sue sorelle, prima di qualsiasi seconda vita persa nell’iperspazio. È questa la differenza, i videogame fanno, si muovono, intrattengono. I fumetti pensano. È per questo che anche nell’era dell’iperspazio sono immortali. Sono la nostra ultima filosofia.
L’idea che la Disney abbia conquistato la Marvel è uno sconquasso che fa ballare l’ultima rappresentazione del mondo. Prendete Paperino, chi più di lui ha seguito le metamorfosi dell’americano medio, con qualche sogno in più dei Simpson e un grammo di cinismo in meno? Se ha un sogno è quello di farsi gli affari suoi, comodamente in pantofole davanti al Superbowl. Isolazionista per natura, in mezzo ai guai per destino. Paperino è il Novecento che avremmo potuto avere e non abbiamo mai vissuto, perché quando sembrava che la storia si fosse fermata, laggiù dal deposito dello zio riccone si udiva un urlo, e addio. Si ricomincia. Sfortuna? Forse. Il problema è che Paperino la sfiga se la va a cercare, la coltiva, la prepara. È la sua improvvisazione che lo porta a scontrarsi con il mondo, come quando pretende di far funzionare un videoregistratore senza aver letto le istruzioni. La burocrazia lo assilla, il tempo lo consuma, la fortuna sfacciata di Gastone è il segno dell’ingiustizia. Su tutto incombe il declino del ceto medio, di cui lui è un outsider. Paperino sogna la tranquillità di una casa con giardino, ma ha un talento confusionario che lo sbatte lontano in qualche avventura, da cui non ricava nulla, se non l’onore di viverla. Ma quel ceto medio che brama non c’è già più. Come non c’è l’ottimismo di un mondo scientifico, anzi tecnologico, che risolve ogni problema, come se bastasse il genio pratico di Archimede Pitagorico a far funzionare il mondo. Paperopoli è diventata sempre un po’ meno America, lasciando sul terreno le torte di Nonna Papera, l’epopea della frontiera, con il giovane Paperone che sfida, in cerca di oro, i ghiacci del Klondike.
È per questo che ora Paperino, sospeso nell’incertezza del disincanto, ha bisogno dell’etica dei Supereroi, quella che sembra aver lasciato questa terra e questa stagione: grandi poteri implicano grandi responsabilità. Vale per tutto, per la politica, per la scienza, per il denaro. Ed è l’ossessione di Nietzsche rispolverata nel consumismo colorato di Andy Warhol. Forse la ricetta per capire questi strani giorni sta proprio in questa unione tra paperi e dei moderni. Paperopoli e Topolinia sono il simbolo di quel che resta della vecchia famiglia, un po’ stramba, con tutti questi zii e nipoti che non si sanno bene da dove vengano. Qualcosa di solido e tradizionale, che la tempesta ormonale del post Novecento non ha spazzato via. Spiderman e gli altri sono un modo per fare i conti con la nostra etica. La loro forza è che non sono come gli dei di Omero, viziati, presuntuosi, invidiosi, meschini, in qualche modo miseri e mediocri, come certe star dei reality show. È questo il problema che stiamo vivendo, l’uomo è sempre più forte, ma la sua anima è rimasta piccola. I signori della Marvel hanno scommesso su questo: grandi poteri, grande etica. Il problema è che stanno fallendo. Marco Mancassola scrive in La vita erotica dei superuomini che la generazione dei supereroi ha perso: «Facevate parte di una stessa onda. Usavate i superpoteri per sostenere le vostre idee di un mondo più libero. Peccato che nessuno sia riuscito a realizzare quelle idee. Peccato che fossero idee tanto fragili».

Ma una speranza c’è: forse paperi e divinità si salveranno a vicenda, incontrandosi sulla stessa strada.

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