Così il regime di Tripoli spiava le vite degli altri

Nella sede della polizia segreta del raìs, abbandonata in fretta e furia, i dossier sugli oppositori e i sospetti. E le istruzioni per localizzare anche i cellulari spenti

Così il regime di Tripoli spiava le vite degli altri

I dossier sono verdi, rosa e gialli. Sotto l’aquila, simbolo della Repubblica araba di Libia, la scritta: «File di informazioni», «apparati segreti interni». Sulla copertina, ci sono il nome della persona tenuta sotto controllo, la ragione della sorveglianza, la data dell’apertura del fascicolo, il nome dell’agente che lo segue. In un palazzo di sei piani nel centro di Tripoli, uno dei quartier generali dell’intelligence, centinaia di dossier sono catalogati lungo metri e metri di scaffali, rinchiusi in armadi di metallo, impilati sulle scrivanie degli uffici, gettati a terra, in disordine, tra i vetri rotti e le rovine di un saccheggio avvenuto da poco.

Da grossi raccoglitori in plastica abbandonati sul pavimento, emergono dettagli sulle «vite degli altri»: fotografie segnaletiche, impronte digitali, dettagli della vita di cittadini comuni, trascrizioni di e-mail private, di chat, di telefonate.
I documenti rivelano quanto pervasiva e tentacolare fosse la rete di spionaggio messa in piedi dal regime di Muhammar Gheddafi. I funzionari che lavoravano in quegli anonimi uffici, sulle cui porte non compare alcun nome, sono fuggiti alla svelta, in fretta e furia, senza avere il tempo di eliminare le tracce di un morboso spionaggio. In una serie di dossier catalogati per indirizzo e-mail, le spie del regime conservavano le trascrizioni di messaggi di posta elettronica di personaggi ritenuti sospetti. Un mese prima dell’inizio della rivoluzione in Libia, il 19 gennaio, sunny6.day8@gmail.com scrive: «Non succederà nulla», se aspettiamo che avvocati, dottori e professori scendano in strada.

«È necessario lavorare anche nelle moschee, dove i libici vanno a pregare ogni giorno». Il dissenso, però, a giudicare dai documenti visionati dal Giornale, aveva già iniziato a serpeggiare mesi prima. Il 29 dicembre 2010, fz9119114@gmail.com informa qualcuno via e-mail che «ci sarà una manifestazione per l’elettricità e l’acqua a Tripoli, nel quartiere di Hadba, di fronte all’ospedale di al Khadra». La spia ha sottolineato in penna blu il luogo della protesta.
Al primo piano dell’edificio ci sono i resti di quello che era un centro di ascolto e di monitoraggio di internet. In una piccola stanza, dispositivi elettronici sono riversati a terra. Nelle postazioni di ascolto non ci sono computer, ma sui muri sono ancora incollate schede di carta plastificata che spiegano agli impiegati il funzionamento dei dispositivi di monitoraggio. «Possibilità di localizzare qualsiasi persona con un telefono cellulare nel Paese, anche che se è spento», c’è scritto in inglese su una di queste schede, fornite dalla ditta francese Amnesys.
Un cartello chiede agli agenti di aiutare a mantenere la segretezza dell’operazione: «Non parlare di informazioni riservate con nessuno al di fuori del quartier generale».

Nella vasta rete di intercettazioni del regime sono finiti anche ricercatori di associazioni per i diritti umani. Heba Morayef, di Human Rights Watch per la Libia e l’Egitto, compare in un dossier perché contatta via e-mail il 12 agosto 2010 da un attivista per i diritti umani di Bengasi. L’uomo chiede consigli dopo essere stato accusato di attività anti-regime, in seguito alla pubblicazione di un dossier sui diritti umani in Libia.
Ma la rete di sorveglianza del regime non si appoggiava soltanto a moderni dispositivi tecnologici. Le informazioni delle spie di quartiere erano scritte un po’ ovunque. Su carta intestata di una società elettrica, un agente locale mette in guardia sull’attività di Hassan M., proprietario di un negozio. Mentre un documento ufficiale raccomanda di seguire i movimenti di Najib R., «quello che compra le armi per i ratti». L’agente usa le parole di Ghaddafi per fare riferimento ai ribelli.

Nella Libia del raìs anche avere troppo senso dell’umorismo poteva essere rischioso.

Un documento di marzo, su carta intestata degli apparati di sicurezza, spiega come un uomo di Marj, nel Nord-est del Paese, sia stato arrestato dopo aver raccontato una barzelleta rivoluzionaria: «Ben Ali dà un calcio al pallone, lo manda in Libia, dove Gheddafi, con un colpo di testa, lo spedisce in Egitto. La palla colpisce e abbatte Mubarak».

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