Così il teste chiave dell’accusa demolisce le accuse di Spatuzza

nostro inviato a Palermo

La «grande» verità del pentito Gaspare Spatuzza dura solo una settimana. E si squaglia alla prima verifica, sui tre lati di un triangolo formato da altrettanti uomini d’onore: Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio, il fratello Filippo, Cosimo Lo Nigro. Giuseppe Graviano tace, Filippo Graviano e Lo Nigro smentiscono Spatuzza su tutta la linea e riportano l’inchiesta su Dell’Utri, Berlusconi e i mandanti esterni delle stragi del ’93 al punto di partenza.
Il primo a collegarsi in videoconferenza, dal carcere in cui è all’ergastolo, è Filippo Graviano. Indossa un maglione verde, lo sguardo è indecifrabile, a tratti ironico, calibra attentamente le parole: «Intendo rispondere nei limiti delle mie possibilità». Nei limiti, perché le domande, sempre le stesse, gliele ha già fatte e rifatte la Procura di Firenze che vorrebbe portarlo oltre quei limiti. Parla, Filippo, del suo amore per la matematica, lui che era considerato la mente finanziaria della cosca di Brancaccio. Spiega che da dieci anni ha messo la legalità in cima ai suoi valori, e già che c’è pure il rispetto delle regole, con tanto di erre strascicata. Schermaglie.
L’aula della Corte d’appello di Palermo, stipata di giornalisti all’inverosimile, aspetta paziente le domande decisive sui rapporti con Spatuzza. Il sostituto procuratore generale Antonino Gatto cincischia, la prende da lontano, butta lì una domanda surreale: «Le risulta che Spatuzza pregasse molto?», forse a puntellare il pentito che sta per franare. Il presidente Claudio Dall’Acqua lo stoppa e lo invita a rimanere nel perimetro del processo Dell’Utri: certo è un terreno un po’ indefinito, perché Dell’Utri è accusato di concorso esterno, ma se si passa alla teologia e agli angeli non si finisce più.
E allora finalmente Gatto si decide e viene al dunque: il colloquio fra Spatuzza e Graviano che, secondo il pentito, sarebbe avvenuto nel carcere di Tolmezzo nel 2004. In quell’occasione Graviano avrebbe detto a Spatuzza: «Se non arriva niente da dove deve arrivare è bene che si cominci a parlare con i magistrati».
È andata davvero così? «No», risponde secco il boss, quel colloquio non c’è stato e non poteva esserci per almeno due ragioni. «La prima è che quando fui arrestato, il 27 gennaio 1994, dovevo scontare solo una pena di quattro mesi, poi ridotta dalla Procura generale a due mesi e mezzo, dunque non avevo nulla da chiedere perché non avevo nulla da temere e ho ricevuto la prima ordinanza di custodia in carcere solo il 12 aprile 1994, tre giorni prima della scarcerazione».
La seconda ragione è speculare alla prima: «Il colloquio a Tolmezzo sarebbe avvenuto nel 2004, sono passati tanti anni, non è che sto in un hotel, mi sarei già vendicato».
Invece Filippo Graviano vive come un trappista fra l’isolamento diurno e il 41 bis. Non cede, non confessa, non si pente. Il procuratore Gatto sfiduciato getta la spugna e allora tocca al presidente Dall’Acqua formulare la domanda di rito: «Lei conosce Dell’Utri?». «No non lo conosco, no non l’ho mai incontrato, no non ho mai avuto rapporti diretti né indiretti». Un no scandito tre volte.
Gli avvocati di Dell’Utri, che attorniano il senatore seduto al primo banco come uno scolaro, sono soddisfatti. L’accusa pensava di fare bingo, ma è un boomerang. Un boomerang per tutte le contestazioni: quelle fuori dal processo e quelle nel processo. E non è finita.
Tocca al boss dei boss Giuseppe Graviano. Che non sta bene, è malato, forse ha un tumore. E sceglie un’altra strada: «Non intendo rispondere, almeno per il momento». Finché, par di capire, non gli saranno garantite visite e cure adeguate. Cinque minuti e le immagini di Graviano sfumano.
Resta Cosimo Lo Nigro, il meno importante dei tre, ma pur sempre qualcosa in una giornata che per l’accusa si profila nera che più nera non si può. E pure Lo Nigro fa a pezzi le presunte rivelazioni di Spatuzza. «Conosceva i Graviano?», gli chiede speranzoso Gatto. E Lo Nigro, pure collegato in videoconferenza come i boss che l’hanno preceduto, chiude la partita: «Li ho conosciuti in prigione. Forse prima venivano nella mia bottega a comprare il pesce, ma non li conoscevo». «Forse pure io sono venuto nel suo negozio a prendere il pesce», replica stizzito il sostituto procuratore generale.
Dunque, il summit a Campofelice di Roccella per organizzare l’attentato allo Stadio Olimpico non c’è mai stato. «Ma come non conosce Campofelice di Roccella?», tenta disperato Gatto.

«Non è colpa mia se non lo conosco», è la chiusa di Lo Nigro.
Un’ora, forse nemmeno, ed è tutto finito. Doveva essere la bomba atomica, non è nemmeno un petardo. È, semmai, un doppio o triplo passo falso dell’accusa.

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