nostro inviato a Parigi
Il titolo è scioccante: «Così Villepin manipola Chirac». La foto in copertina emblematica: mostra un presidente dimagrito con lo sguardo perso nel vuoto, al suo fianco il primo ministro che lo osserva, sorridente e compiaciuto. Il settimanale Express ha rotto il tabù, scrivendo quel che nell'ambiente giornalistico finora si osava solo sussurrare. Per la prima volta nella storia della quinta Repubblica il capo del governo conta più del capo dello Stato. È lui a dettare la linea, lui a imporre una battaglia, quella sul Contratto del primo impiego, quella che Chirac non avrebbe voluto combattere. Non in questo modo, perlomeno.
Era stato infatti il presidente della Repubblica a volere la legge che di fatto rendeva obbligatoria la concertazione sociale e a garantire ai sindacati e alla società civile che avrebbe cercato innanzitutto il dialogo. Ma da quando ha avuto l'ictus non è più lui. Ufficialmente si è ristabilito completamente e quando appare in pubblico si sforza di apparire quello di sempre. Non certo un grande statista, non lo è mai stato e non lo diventerà in questi ultimi mesi alla guida del Paese, ma perlomeno un presidente nel pieno possesso delle proprie facoltà. E invece la voci che trapelano dall'Eliseo descrivono una realtà diversa. Chirac c'è con la testa, ma non più con lo spirito.
Un presidente improvvisamente insicuro, svagato, restio a impegnarsi in prima persona nel dibattito politico. Un presidente che, come tutte le persone in difficoltà, tende a fidarsi solo di coloro che conosce da tempo. Uno su tutti: Villepin che, oltre dieci anni fa, era già uno dei più ascoltati consiglieri del leader gollista. Fu lui, poco più che quarantenne, a elaborare assieme all'allora premier Alain Juppé la visione centralistica del potere, che caratterizza gli esecutivi di centrodestra.
Juppé era il delfino designato; ma gli scandali giudiziari lo misero fuori gioco. E Villepin, all'epoca segretario generale dell'Eliseo, rimase felicemente solo. Secondo un altro quotidiano poco amico dei gollisti, Le Monde, fu lui nella primavera del 2002, poco prima della scontatissima vittoria di Chirac nel duello presidenziale con Le Pen, a suggerire la nomina di Jean-Pierre Raffarin, a quel tempo lo scarsamente noto presidente della regione Poitou-Charentes, alla guida del governo. L'investitura fu alquanto informale: al Lapérpouse, un bel ristorante sul Lungosenna. Villepin andò subito al punto: «Andrai tu per primo a Matignon. Poi toccherà a me».
E così fu. L'opaco Raffarin resse fino alla sconfitta nel referendum europeo, di cui divenne il capro espiatorio nel maggio del 2005. Poi Villepin fece valere i suoi antichi legami con Chirac. Gli bastò un colloquio a quattr'occhi per convincerlo che né Nicolas Sarkozy né Michèle Alliot-Marie, i due candidati favoriti, sarebbero stati in grado di risollevare il prestigio di un esecutivo sconfessato dagli elettori. Una manovra perfetta, con un unico neo: la nomina, ineludibile, del presidente del Partito, Sarkozy, a ministro degli Interni.
Uniti anche nella crisi. Il gradimento precipita per entrambi, ma Villepin si ferma a quota 29%, nove punti in più di uno Chirac a cui nessuno dà più credito.
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