Cose che capitano solo a un fantasista

Dagli studi televisivi di «Gnok Calcio Show» al palcoscenico del Franco Parenti il passo è breve, anzi lunghissimo. «Una fatica bestiale far ridere per quasi due ore» confida il Gene nazionale che, con la consueta erre moscia, ha raccontato «Cose che mi sono capitate», il suo monologo surreale in scena ancora per oggi al Pierlombardo.
Premessa doverosa per chi non ama le parodie calcistiche e non è mai andato in fibrillazione per le freddure catodiche dell’avvocato della Bassa: Gnocchi a teatro è semplicemente superlativo, a sottolineare con la matita blu la differenza che intercorre tra un comico di razza e un quasiasi tormentone alla Zelig. Ciò che lascia piacevolmente stupiti è la sua capacità di mantenere sul palco, senza mai cadute di tono, un perfetto equilibrio tra demenzialità e intelligenza, cronaca e iperbole, trascinando lo spettatore nell’iperuranio di una comicità imprevedibile anche nelle immagini più prosaici, a metà tra Beckett, Gaber e Guareschi.
Sono le cose che ci capitano o noi che capitiamo alle cose? è la domanda che, sottotraccia, tinge di una vena intimista e un po’ amarognola l’outing globale a cui, solo sul palco e con sè stesso, si sottopone il protagonista dello show, un piccolo borghese della terza repubblica a cui è stata comunicata un’infausta diagnosi: «Lei è malato perchè per tutta la vita si è tenuto tutto dentro». E a chi non succede? Così, l’unica possibilità di guarigione passa attraverso la catarsi ovvero l’apertura del polveroso baule di ricordi ed emozioni mai esternate ma spesso equivocate. Il resoconto è da manuale di psicoanalisi, liberissime associazioni di un inconscio sempre in bilico tra realtà e fiction, idolatrie collettive e miti della middle class, reality e mass media.
Ce n’è per tutti e per tutti i colori: come quella volta in cui il nostro venne rapito dalla mafia in un autolavaggio di Fidenza («non potendo colpire Saviano -di cui le cosche detengono i diritti d’autore- hanno scelto me perchè vendevo pizzi»), o quella volta in cui Sarkozy gli affidò una missione impossibile di prima mattina mentre stava facendo stalking alla Carfagna, o quell’altra volta ancora che venne contattato da Obama su Facebook.

Ma la grande forza di questo show, aldilà della presenza scenica del protagonista («so di essere un sex symbol»), sta nella scelta radicale del paradosso come soluzione all’enigma dell’esistenza umana, nel primato delle ossessioni su logica e morale, nel trionfo del fato -greco o padano fa lo stesso- su una sciocca illusione chiamata libero arbitrio.

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