Ora che i coccodrilli hanno smesso di piangere, le iene hanno smesso di gioire e gli sciacalli hanno smesso di fingersi suoi amici per sparlare di lui anche da morto, vorrei tentare un necrologio onesto di Francesco Cossiga, con un bilancio politico della sua eredità. Cossiga, a differenza degli altri presidenti della Repubblica che hanno puntato, per dirla con Longanesi, alla manutenzione, vagheggiò invece la rivoluzione, o almeno la svolta. Ha vissuto all’altezza del suo tempo burrascoso, è stato l’interprete più efficace di un trauma e di un crollo. E lascia un’eredità politica che non hanno lasciato né i suoi predecessori né i suoi successori.
Cossiga incarnò al massimo grado la lealtà alle istituzioni, l’ossequio alla ragion di Stato e al dettato costituzionale e al tempo stesso la ribellione, l’anarchia creativa, l’inquietudine, la gravidanza di una nuova Repubblica. Tanto le sue ombre più fosche quanto le sue uscite più clamorose, sono il segno di quella doppia natura. Cossiga si è pensato come traghettatore e non fondatore della seconda Repubblica, perché aveva la curiosità esplorativa del primo ma non l’indole generativa del secondo. Infatti si definiva un Coty e non un de Gaulle; ovvero un precursore, non un leader. Cossiga ebbe un’indole anfibia, che si potrebbe definire una schizofrenia creativa: fu cattolico e pure amico della massoneria, fu notabile democristiano e guastatore, fu moderato e fu estremista, fu liberale e fu eversivo, fu statista e fu destabilizzatore, fu tragico e fu grottesco, fu protagonista ufficiale e insieme divertito osservatore della scena politica. Fu il maggiore interprete e testimonial della svolta italiana verso una democrazia presidenziale. Là resta la sua originalità, la sua eredità. Lui che venerava lo spirito della Costituzione e il compromesso che ne era alla base tra cattolici, liberali e socialcomunisti, fu il primo presidente a metterne pubblicamente in dubbio la sostanza e l’insuperabilità, a contestare la subordinazione delle istituzioni ai partiti e dell’esecutivo al parlamento, a rimettere in discussione il primato della mediazione sulla decisione e il ruolo imprecisato del capo dello Stato di custode o garante della Costituzione. Lui che proveniva dal partito del «niente nuove buone nuove», lui che veniva dal ventre flaccido e rassicurante della Dc, precorse il cambiamento, cavalcò il clima di eccitazione e d’incertezza. Aveva il senso dello Stato ma coltivò, come insegnano i grandi giuristi, anche lo stato d’eccezione; capì il travaglio della sovranità politica in una fase in cui i vecchi dei sono scomparsi e nuovi dei non erano apparsi.
Il suo sogno di riforma, con l’elezione diretta del presidente della Repubblica, più il sistema uninominale maggioritario e la riforma della giustizia, è attualissimo: servirebbe a garantire che la svolta presidenziale e bipolare voluta dagli italiani non è legata solo alla figura di Berlusconi e non è pensata ad personam ma è un’esigenza vera e strutturale della nostra democrazia. E funziona bene a livello locale, con l’elezione diretta dei sindaci e dei governatori, l’unica riforma che nessuno rimette in discussione e che consente amministrazioni durature, maggioranze nette e responsabilizza chi decide. È da lì che dovrebbe ripartire la politica. Pur non essendo d’indole un capo popolo, Cossiga ha sdoganato il populismo della nostra era e lo ha riconosciuto come un sintomo e una risposta alla crisi di legittimità della politica e al dominio delle oligarchie.
Cossiga non lascia eredi nelle istituzioni e soprattutto tra i senatori a vita, di cui costituiva una brillante eccezione e di cui non a caso auspicava la soppressione.
Eppure si avvicina il tempo in cui si renderà necessario un nuovo Cossiga, un nuovo vivace interprete del difficile passaggio politico e istituzionale che ci aspetta. E di cui il grottesco surrogato è l’invocazione del governo dei tecnici, come se le soluzioni politiche in democrazia si possano trovare fuori dalla politica e dal consenso popolare. Cossiga è stato anche il primo presidente della Repubblica che ha fatto uso pubblico di sense of humour, risultando espressione fedele del popolo che rappresentava. Con tutto il rispetto, i suoi predecessori e successori furono collerici o stucchevoli, noiosi o pomposi, prevedibili e un po’ tromboni. Mai spiritosi come lui.
Infine permettetemi di sfiorare la vicenda umana di Cossiga. In un editoriale che scrissi due mesi fa, lanciavo l’allarme sulla volontà di morire di Cossiga, anzi sul suo considerarsi già defunto e alludevo, senza violare la privacy e soprattutto la delicatezza di un dramma personale, al suo rifiuto di curarsi, come hanno poi confermato i medici. Azzardo il dubbio che Cossiga sia stato anfibio anche alla fine, tenendosi al confine tra la cristiana rassegnazione e una forma implicita di eutanasia. C’era una stanchezza in lui che non può solo attribuirsi al narcisismo ferito degli ultimi tempi, al suo inevitabile ritirarsi dalla scena dopo aver provato il piacere di stupire e di turbare l’ordine pubblico e il conformismo istituzionale con una serie di paradossi, provocazioni, gag e rivelazioni. Ma dietro il tono sardonico, e uso l’aggettivo non a caso, cresceva in lui un rigetto della vita, della politica e del declino di ambedue, che da credente e da uomo di stato rifiutava di esplicitare. Cattolico da una vita e politico per una vita, Cossiga non poteva mostrare insofferenza alla vita e alla politica; era una smentita di ciò che aveva creduto per tutta l’esistenza.
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