E la luce fu. Potente e discreta, fredda e calda, catturata dal vetro e dal marmo, sparsa. Elemento fondamentale per concepire spazi che siano respiro.
Immateriale materia necessaria a Floriana Lainati, ex modella, scenografa e interior designer, esempio di creatività femmina che esprime, anima nei suoi lavori, nel desiderio di contaminazione equilibrata tra culture, nell'affermazione del design italiano filtrato dal suo sguardo capace di restituire agli ambienti la magia inalterata dell'infanzia. Ha iniziato nel mondo della moda, collaborando con Trussardi, Loro Piana, Cavalli. Ha creato set fotografici per Elle Decor, AD, Interni, ama le linee pulite, essenziali.
Racconta dei suoi esordi, del suo incontro casuale con Sergio Salerni, «regista che ha inventato gli show delle sfilate, concependoli come vere rappresentazioni teatrali, dove l'abito era centrale fonte d'ispirazione, e il resto cornice. Scenografie che avevano costi alti (per venti minuti di sfilata) e perciò sono state eliminate rendendo tutto molto minimalista. Dopo questa esperienza, ho voluto passare a qualcosa di permanente. Sono stata a New York, ho lavorato per Sergio e poi per Cesar Mosca, architetto argentino». Ma da New York è fuggita tornando in Italia, a Milano. Un'inversione di tendenza, un ritorno voluto. «È una scelta culturale - spiega Floriana - mi sento meridionale, mamma e papà sono napoletani e io sono nata al Vomero. Non riesco ad essere formale, mi piace la naturalezza. Allestero l'esperienza è stata positiva, in America si sfruttano tutte le potenzialità, ma non mi ci sentivo proprio. Quello che ho imparato lì lo porto qui. Ho avuto paura, paura degli sguardi svuotati delle persone, della corsa totale al successo, del deterioramento dell'umanità che ti calpesta mentre cammini».
Verace bellezza normanna, colori chiari che tradiscono l'immagine classica di donna del sud. Floriana Lainati sta portando avanti un paio di progetti nella emergente Cina: si tratta della ristrutturazione del Golden Business Center di Shenzen e di un progetto della Giugiaro Project che vuole esportare modelli di ville sparse nel territorio verdeggiante con un corso d'acqua che tocca tutte le abitazioni. «Si va avanti gradualmente, in Cina hanno una grossa forza lavorativa ma non le idee - chiarisce Floriana - sono tanti, forti e hanno voglia di riscatto. Mostrano un gusto rétro, si rifanno a stereotipi americani forzatissimi, mentre la loro architettura ormai è quasi cancellata dal paesaggio».
«Quello che mi interessa è dare umanità, poeticità e delicatezza allo spazio e usare gli stessi canoni anche per chi non se lo può permettere, per gli spazi pubblici ai margini delle città - dice Floriana -. Mi piacerebbe abbellire la periferia di Milano, a dieci minuti dal centro, e in questo mi ispiro al maestro Aldo Cibic. Bisogna usare poesia ed evitare strutture massicce e ripetitive. Non si può contare solo sul cemento. Progettare ecomostri permette di guadagnare di più, ma fare una casa gradevole non ha un costo superiore. In futuro vorrei anche rendere più confortevoli gli spazi ospedalieri per i piccoli malati, creare luoghi rassicuranti e fiabeschi». Ed esprimere il suo amore per il vetro che sfonda i limiti e dà calore attraverso le verande, fonti di luce. Anche per la ristrutturazione di cui si occupa in questi mesi Floriana si ispira alla fiaba, specie per le stanze degli abitanti più piccoli. Questa dimora del Cinquecento in via Cappuccio a Milano sta diventando un «sogno déco moderno, essenziale e mai ridondante».
Anche la sua casa, un'ex officina nel cuore della città, è un nido di luce immerso nella natura intrappolata dalla veranda. È il dominio del bianco. Luce pura riflessa dai tagli del vetro, dallo specchio. Cattura del giorno e fantasia che trionfa nella stanza della sua bambina, una scatola magica abitata da gnomi e fate con un letto di legno grezzo e quattro rami agli angoli che sostengono un velo lilla. Una zattera che ospita sogni e lascia filtrare la luce delle stelle.
Non è la stessa luce apparsa la notte del 6 luglio del 1944 su Dalmine (Bergamo) a un ragazzino che oggi racconta: «Guardando il cielo ho visto tante piccole stelle d'argento cadere giù, verso di noi». Erano le quattrocentoventiquattro bombe di produzione americana lanciate su una fabbrica del luogo un sera d'estate. Il bilancio fu di trecento morti e ottocento feriti.
A celebrare questa strage di operai è il «Progetto bunker» ideato dall'artista Laura Morelli che sta compiendo un lavoro da antropologa, mettendo insieme video, audio, installazioni e fotografie. La raccolta di materiali procede e la memoria storica tramandata oralmente, è preservata.
«Le sopravvissute al bombardamento furono le donne del luogo, madri, mogli, fidanzate, figlie, e alle donne ho affidato il lavoro di ricostruzione di bombe all'uncinetto, a grandezza naturale - racconta Laura - il lavoro a maglia è una forma intima e positiva di elaborare un evento drammatico. È qualcosa di vezzoso legato all'idea di famiglia». È la guerra che si volge in pace, strumenti di morte che rinascono da fili di cotone, con l'impegno di una settantina di donne bergamasche di età diverse e diverse condizioni sociali che creano bombe colorate con l'uncino, i ferri, il tombolo. Bombe azzurre, lilla, fucsia, bianche, rosse o verde oliva con due strisce arancioni, come erano le originali. Vengono irrigidite con la resina e restano in piedi come sculture d'armonia, giochi, gabbie per colombe. «Ogni donna sceglie il colore che preferisce e il tipo di lavorazione - aggiunge Morelli - il progetto ha durata annuale e il primo allestimento sarà il prossimo 2 luglio nella nuova Biblioteca di Dalmine, ex mensa della fabbrica bombardata». I testimoni che narrano quello che hanno sentito e visto sono un impiegato, un operaio, la cuoca volontaria alla mensa, il figlio del costruttore del bunker, il medico del paese con sua moglie e il vescovo di Bergamo, Roberto Amadei. «Nel '44 era un bambino - racconta Laura - saputo del bombardamento andò di corsa in bici fino alla fabbrica dove lavorava suo padre». Pare che quella notte il comando tedesco non fece partire allarmi. Nessuno si rifugiò nel bunker, protagonista e contenitore nascosto, ventre che soffoca e protegge, patrimonio storico architettonico sotto campagne e strade.
Ventre è pure la pancia di un violino, forma di legno che nasconde il mistero del suono, materia che usa l'aria con sapienza. Arte visiva e sonora si fondono nell'ultima produzione di un'artista come Domenica Regazzoni, figlia di uno storico liutaio lombardo, Dante, a cui lei dedica una serie di trenta opere ispirate all'arte della liuteria (e in mostra per l'intero mese di giugno alla Compagnia del Disegno di Milano).
Assemblages, tecniche miste, sculture in abete, bronzo, acero, tavole di legno, strumenti spaccati come mele, ridotti a frammento, ad accenno, come feti in crescita interrotta. Un rito lungo che osanna un artigianato raffinatissimo, antico, fatto di precisione estrema, di conoscenza del vento. «Tento di evocare quello che sta dietro la superficie delle cose», dice Domenica, e questo è il suo credo, sia che si tratti di scultura che di pittura.
Evocare ripetendo i gesti paterni ma lasciando le forme incompiute, esposte a indicare un'idea di perfezione, attenzione, fatica. La leggerezza domina il disegno come le linee dei violini riprodotti, simili a pezzi di corpi, smembramento delle parti per suggerire l'interezza.
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