Controcultura

Il crepuscolo dell'invidia Wagner bacchetta i colleghi

Mendelssohn lo offuscava nella sua Lipsia, Brahms passava per l'erede di Beethoven. Così partì la sinfonia di accuse

Il crepuscolo dell'invidia Wagner bacchetta i colleghi

«A me sembra quasi che Wagner parli spesso come davanti a dei nemici». A scrivere queste parole è l'amico (prima) e detrattore (poi) di Richard Wagner, Friedrich Nietzsche, nel decimo capitoletto del suo Richard Wagner a Bayreuth. In effetti, la similitudine nietzscheana tratteggia bene l'attività scrittoria del compositore tedesco. Saggista bulimico e critico assetato, Wagner è autore di una quantità sterminata di pagine: in molte di esse, come già notava Nietzsche, il costante substrato è quello della vis polemica, della disputa pungente, degli attacchi velenosi, delle stilettate al vetriolo. Ora, tale produzione wagneriana è disponibile in un unico volume: Scritti teorici e polemici (Edt, pagg. 254, euro 28, a cura di Maurizio Giani).

Dopo aver meritoriamente riportato alla luce Una comunicazione ai miei amici, novanta fitte pagine del 1851 scritte durate il tormentato esilio in Svizzera che vanno a coronare il pensiero wagneriano di estetica militante e, soprattutto, a esplicare il suo «vasto progetto poetico», nel libro è contenuto un saggio fondamentale (non solo per la storia wagneriana): Del dirigere. Pubblicato a puntate tra il 1869 e il 1870, è il primo trattato della storia della musica interamente dedicato alla direzione d'orchestra in chiave estetica. Qui Wagner, vera popstar dell'epoca di podio e bacchetta, non le manda a dire: Meyerbeer e Mendelssohn sono stati incapaci di portare quel rinnovamento necessario alla musica orchestrale tedesca disseminando solo «fiacchezza». Secondo Wagner, il tempo di un'esecuzione deve ricavarsi dalla cantabilità melodica e non viceversa: «I nostri direttori non sanno nulla del tempo esatto per la ragione che non capiscono nulla di canto».

Meyerbeer e Mendelssohn, entrambi di origini ebraiche, non erano nuovi, del resto, all'avvelenata penna wagneriana: nel 1850, i due erano stati al centro del pamphlet, pubblicato con lo pseudonimo di K. Freigedank, Il giudaismo nella musica. Dal 1850 (e anche prima) al 1870, il motivo di quest'avversione ultraventennale verso i due colleghi è quasi bambinesco: Mendelssohn, nominato direttore della prestigiosa Gewandhaus di Lipsia, offuscava la figura di Wagner nella sua città natale. Per questo, Wagner si premura di allertare che, addirittura, «a Mendelssohn faceva difetto la capacità formale di produzione artistica». L'«oltremodo sgradevole» Meyerbeer, invece, nonostante avesse aiutato largamente Wagner, era colpevole di essere compositore affermato nella nodale Parigi, cosa che Wagner non riuscì a ottenere dovendo, così, ripiegare su Dresda.

In un altro saggio, Sulla finalità dell'opera, Wagner si dedica ad un tema a lui caro: il teatro che, come dichiara in apertura, è accusato di decadenza a causa del troppo successo dell'opera. Il testo, nato come conferenza accademica tenuta a Berlino il 28 aprile 1871, è innovativo e interessante per una particolare tesi del compositore tedesco secondo cui l'opera d'arte perfetta è «una improvvisazione mimico-musicale di compiuto valore poetico fissata con suprema avvedutezza artistica». Questa idea si incarna al massimo grado in Shakespeare e Beethoven. «I concetti musicali di Beethoven», scrive Wagner, «hanno dei tratti che li rendono tanto inspiegabili quanto lo erano rimasti, per i poeti studiosi, i concetti di Shakespeare»: in entrambi, però, «la potenza dell'azione, benché esplicantesi in modi diversi, dev'essere avvertita nell'identico grado». Chiave di volta per la realizzazione della vera opera d'arte è l'improvvisazione: «Il segreto consiste nell'immediatezza della rappresentazione, ottenuta qui con l'espressione del volto e con i gesti, là con il suono vivo. Ciò che entrambi direttamente creano e raffigurano è la vera opera d'arte». Ecco perché, secondo Wagner, «nell'opera d'arte più alta che si possa immaginare devono continuare a vivere con immensa chiarezza le sublimi ispirazioni di entrambi».

In due dei testi della parte conclusiva del libro - Del comporre poesia e musica e Sull'applicazione della musica al dramma - il dente avvelenato di Wagner ritorna. Questa volta, bersaglio diretto (benché mai nominato) è Johannes Brahms. Il motivo del focoso attacco è, di nuovo, puerile: Brahms, in quanto compositore prevalentemente cameristico, non era mai stato nel mirino di Wagner finché, ahilui, non raggiunse le prime pagine e la gloria della Germania con il Deutsche Requiem, la cantata Triumphlied, la prima sinfonia definita da Hans von Bulow «la Decima» di Beethoven e, addirittura, una laurea honoris causa. Inaccettabile, per Wagner, il quale mette, dunque, in guardia dal compositore «che si spaccia per uno che compone veramente bene». Colpa di Brahms è, per Wagner, aver mutuato il genere sinfonico da quello cameristico: «Ciò che prima era stato destinato a dei quintetti adesso viene servito in forma sinfonica: una misera pappetta melodica, simile al tè misto con fieno, che, mandandola giù, non si sa cosa tocca d'ingoiare».

L'acidità, mai, però, slegata a eccelsa competenza e letterarietà, è cifra distintiva della personalità e di molti scritti wagneriani.

E se «la separazione dell'artista dall'uomo è una cosa priva di significato, esattamente come dividere l'anima dal corpo», come sosteneva Wagner, allora la presente raccolta di scritti può costituire una preziosa porta per l'accesso al mondo artistico e umano del compositore tedesco.

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