«Crisi, alle piccole ditte serve tempo»

Ottimismo ma con cautela. Le piccole e medie imprese rialzano la testa dalla crisi ma non la ritengono ancora finita. E chiedono misure mirate per intercettare la ripresa. A parlare è Stefano Valvason, direttore generale di Confapi: «Apprezziamo molto la moratoria della Regione che sospende i debiti delle aziende con le banche, misura che ci aspettavamo perché è frutto di una nostra insistente richiesta. Purtroppo però non basta».
Quali altre misure chiedete alla Regione e agli enti locali?
«Il problema è che tutte le aziende che hanno usufruito della moratoria vedono scadere il termine dei dodici mesi e si vedono costrette a pagare le rate quando ancora non sono in grado di farlo. La ripresa non è per tutti».
E la proroga promossa dal Pirellone?
«Alle aziende che hanno chiesto la moratoria nel settembre 2009, la sospensione scade nell’ottobre 2010. La proroga riguarda la possibilità di avere accesso alla moratoria, per cui le imprese che hanno le caratteristiche possono chiederlo, se non ne hanno ancora usufruito. Ma dopo i dodici mesi, la sospensione termina in ogni caso».
La ripresa economica non è sufficiente a far fronte alla situazione?
«La ripresa sta partendo adesso ma è non forte e non per tutti. Le aziende vengono azzoppate finanziariamente nel momento in cui c’è più bisogno di denaro perché la ripresa sta partendo e loro hanno bisogno di un volano economico per inseguirla. Per questo chiediamo di avere a settembre altri sei mesi di sospensione in modo da poter arrivare quota diciotto mesi».
I segnali positivi dell’economia che effetto hanno sulle vostre aziende?
«La ripresa va a macchie di leopardo, non è per tutti. Ci sono settori che stanno riprendendo, soprattutto per le aziende che operano con i mercati esteri e con l’Unione europea, perché a trainarle sono i Paesi extra Ue. Chi lavora, direttamente o come indotto, con i Paesi extra Ue può contare su maggiori ordinativi».
Quali settori si avvantaggiano di più?
«È un fenomeno disomogeneo. Nel chimico può capitare di avere un azienda che non farà ferie per le troppe commesse e un’impresa similare che fa pesanti ricorsi alle casse integrazioni perché non squilla il telefono e non riparte niente. La chiave interpretativa non sono i settori merceologici, ma i mercati di sbocco».
Gli investimenti sono ripartiti?
«Paradossalmente le aziende che hanno più investito sono più penalizzate, perché hanno impegnato i soldi proprio a ridosso della crisi. Ma le aziende investono lo stesso perché sanno che, appena finirà la crisi, chi avrà meglio investito potrà avvantaggiarsi».
Si parla molto di delocalizzazioni. Rischiano di essere controproducenti?
«Ci sono aziende, come la Omsa, che chiudono per andare in Serbia a trovare agevolazioni e defiscalizzazioni. Anche noi chiediamo aree defiscalizzate in provincia di Milano. Sembra una richiesta strana perché il Milanese è un’area ricca ma a Sesto a Cinisello le industrie non ci sono quasi più. Il fatto che l’industria sparisca è un fenomeno che va frenato invertito. Oggi restano solo catene alberghiere e centri commerciali. È un problema anche per i laureati che escono dalle nostre università: rischiano di dover andare all’estero per trovare impieghi di livello».
Quali segnali vi arrivano sull’occupazione?
«Le persone sono la centralità delle piccole e medie imprese. Si sono fatti i salti mortali per non lasciare a casa nessuno perché per un piccolo vuol dire perdere un patrimonio di conoscenza e esperienza non facilmente sostituibile.

Licenziare crea un danno all’azienda. Per questo c’è stato un grande ricorso alle casse integrazioni ordinarie e in deroga. A settembre ci aspettiamo la cassa integrazione straordinaria: per molti è l’unico modo per evitare la mobilità».

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