La crisi? Sarà la fortuna dell’economia

La crisi? Sarà la fortuna dell’economia

di Edward N. Luttwak

Le gerarchie regionali e globali dell’assetto mondiale cambiano sempre quando gli Stati guadagnano o perdono potere relativo e influenza, sebbene si tratti di cambiamenti in genere molto lenti: i nuovi arrivati, tutti parimenti vigorosi, mancano di prestigio accumulato, mentre, d’altro canto, le grandi «potenze storiche» possono resistere sfruttando la propria reputazione per decenni o generazioni.
Grandi guerre e trasformazioni economiche importanti possono accelerare il processo di cambiamento, ed è quanto si sta puntualmente verificando nell’attuale crisi economica globale, forse la più grande dal 1939 (gli economisti citano il 1929 o il 1931 come «la Grande Depressione», ma le trasformazioni economiche della Seconda guerra mondiale sono state più importanti). La Francia non ha avuto alcuna responsabilità nella determinazione della crisi e il Regno Unito ha giocato un ruolo solo secondario, con la sua «bolla immobiliare» e l’imprudente concessione di mutui ipotecari, ma soprattutto fungendo da base «offshore» per la finanza americana. Eppure, sembra che siano Regno Unito e Francia ad avere subito le maggiori perdite quanto a potere relativo, assieme all’intera Unione Europea.
(...)
Per l’Unione Europea la crisi economica globale poteva essere una grande opportunità di rapida institution building (...). Era il momento di imporre una forte presidenza esecutiva, il voto di maggioranza e, dove necessario, sottoporre a referendum. Un’impresa che avrebbe potuto realizzarsi grazie a un’azione congiunta dei governi francese, tedesco e britannico e con il deciso sostegno della Banca Centrale Europea. I loro leader, invece, hanno fatto a gara a chi carpiva più attenzione, e sul piano burocratico c’è stata più rivalità che cooperazione, mentre la Bce evidentemente preferisce governare da sola, senza un ministro delle Finanze europeo che possa avere delle idee proprie. Il risultato è stato che la crisi è andata completamente sprecata con la farsesca presidenza ceca sostenuta dal presidente Klaus, che si oppone all’Unione Europea per principio, e un primo ministro non ancora pronto alla visibilità europea, il cui governo ha avuto vita breve.
Anche per questo motivo, la crisi economica globale ha indebolito l’importanza relativa degli europei, collettivamente e individualmente.
In teoria, il declino di potenze più consolidate dovrebbe comportare necessariamente la relativa ascesa di potenze emergenti, cioè del Brasile, dell’India, della Turchia, ecc., come pure della Cina. In pratica, però, la Cina è stata di gran lunga il maggiore beneficiario e con un abbondantissimo margine (prova ne è che si parla già di «G2»), non perché la sua economia è più grande, le sue riserve di dollari più ampie, la sua forza militare più rilevante, ecc. ma piuttosto perché il governo cinese ha risposto alla crisi assumendo subito maggiori responsabilità nei confronti dell’economia mondiale. L’ha fatto, in primo luogo, analizzando la crisi nella sua totalità insieme con gli Stati Uniti, trattenendosi dall’adottare miopi misure unilaterali che avrebbero potuto peggiorare le cose (ad esempio, vendere strumenti in dollari), e agendo prontamente con l’unico strumento rilevante: la spesa pubblica accelerata. La brusca diminuzione della domanda di elettrodomestici Usa, generata dall’indispensabile incremento dei risparmi, ha aperto un’improvvisa lacuna nella domanda globale che ha finito per condurre l’economia mondiale in una spirale verso il basso di vendite in calo, cali di produzione, cali occupazionali... e nuovi cali delle vendite; solo il forte aumento di un altro tipo di domanda potrebbe arrestare il declino, e accanto ai meno marcati aumenti di spesa di Giappone e Corea, è stata la Cina che ha fatto il più. La sua nuova o ampliata spesa in opere pubbliche va senz’altro a beneficio della Cina, ma aumenta anche inevitabilmente la domanda globale. Di contro, i governi di Brasile e India, nonostante la loro competente gestione economica, hanno risposto alla crisi globale concentrandosi interamente sulle proprie economie nazionali, senza neppure tentare di contribuire a soluzioni globali. Non riconoscono ancora di avere l’obbligo di farlo.
Anche se a causare la crisi economica globale è stato il fallimento della politica commerciale negli Stati Uniti, delle sue istituzioni finanziarie e della supervisione del governo americano, non possiamo ancora sapere se gli Stati Uniti ne usciranno con un potere relativo diminuito e, se così, quale sarà la portata di tale ridimensionamento. Solo la perdita di prestigio «sistemico» è evidente e fuor di dubbio: non si è trattato di un singolo leader, o di un’amministrazione o anche di due - un intero regime di gestione economica (potremmo chiamarlo «Greenspan consensus») è fallito. Il prestigio conta perché evoca rispetto, servizi gratuiti, ma a differenza delle sostanziali fonti di potere (il potere economico, la forza militare, l’attrazione culturale...) può essere riconquistato con la stessa facilità con cui è stato perso. Quanto alla forza militare americana, qualunque possa essere il suo attuale peso nella politica mondiale, essa non è influenzata dalla crisi economica sul breve termine (se non positivamente, dal momento che il reclutamento ha registrato una crescita).
Sul lungo termine, ceteris paribus, la forza militare americana dovrà di certo diminuire col declino dell’economia degli Stati Uniti - ma è proprio questo punto che rappresenta una questione aperta a causa del peculiare fenomeno americano: sul piano storico, l’economia degli Stati Uniti si è sviluppata in modo caotico, attraverso fasi ricorrenti di instabilità che avrebbero danneggiato economie meno flessibili.
Storicamente gli Stati Uniti hanno sempre combinato stabilità politica e instabilità economica - in realtà, proprio perché la stabilità politica è ritenuta comunque cosa certa, i governi americani non si sono mai sentiti obbligati a preservare la stabilità sociale assicurando una stabilità economica. Ciò ha consentito una crescita più rapida, dal momento che le misure che aumentano la stabilità inevitabilmente, in un modo o nell’altro, ostacolano la crescita: la disciplina fiscale e monetaria nelle politiche macroeconomiche, le leggi sulla tutela dei lavoratori, la proprietà pubblica, le politiche industriali, ecc.
Imprese e forza lavoro prive di tutela sono più produttive, a parità di tutte le altre circostanze, perché una «distruzione creativa» non ostacolata automaticamente ridistribuisce le risorse di lavoro, di terreno e di capitale al più efficiente - e, in un’ottica storica, l’economia degli Stati Uniti è cresciuta più rapidamente delle altre grandi economie avanzate dell’Europa e del Giappone perché le sue aziende erano meno tutelate, sia all’interno che all’esterno. (Gli interventi dell’attuale governo per impedire la bancarotta delle maggiori imprese sono ritenuti temporanei, eccezioni di emergenza che verranno presto revocate; se questo non avverrà, allora gli Stati Uniti saranno «europeizzati» e la loro economia cesserà di essere diversa).
La distruzione creativa è particolarmente vantaggiosa quando le aziende indebolite o distrutte sono di grandi dimensioni e monopolistiche. Il crollo di Bell Telephone & Telegraph ha dato vita a un gran numero di società e a una rivoluzione nelle telecomunicazioni; la rovina di IBM ha fatto nascere l’industria del personal computer con tutto quello che ci ruota attorno, incluso internet. In entrambi i casi, si trattava di potenti monopoli ritenuti molto avanzati - i laboratori Bell erano famosi in tutto il mondo, i «mainframe» dell’IBM erano l’emblema stesso del progresso tecnologico. In realtà, essi realizzavano innovazioni minori, bloccando invece innovazioni molto più grandi - il tipo di innovazione che crea industrie totalmente nuove.
Sebbene GM, Ford e Chrysler non fossero dei monopoli o anche solo oligopoli perché avevano una forte concorrenza straniera, non sono state certamente innovative. Le loro grandi quote di mercato scoraggiavano l’innovazione - ovviamente, loro miravano a proteggere il proprio prodotto consolidato, creato per un mercato consolidato. Solo di recente distruzione creativa e innovazione reale hanno avuto inizio a Detroit e in molti altri luoghi dove le auto venivano progettate, sviluppate e assemblate: nuove aziende con nuove idee e nuovi prodotti possono affittare spazi di stabilimento automobilistico a basso prezzo, acquistare macchinari per la produzione e attrezzature a valore di rottame, e trovare quantità di operai disoccupati ansiosi di lavorare per 25 dollari all’ora invece dei 45 o 60 che pagava la GM. Stanno nascendo piccole industrie manifatturiere che non hanno posizioni di mercato consolidate da proteggere, e che perciò possono e devono innovare (ci sono già i primi progetti di automobili elettriche modulari personalizzate).
Si è verificata indubbiamente una grande distruzione nell’economia degli Stati Uniti. Molti dei giganti finanziari e industriali hanno subito un declino drastico (Ford), o sono scomparsi del tutto (Lehman Bros.), oppure sopravvivono precariamente grazie a ingenti prestiti governativi (AIG, GM). Nel passato l’economia americana ha sempre tratto vantaggio dall’indebolimento o dalla bancarotta dei suoi giganti. Se ciò accadesse di nuovo, la distruzione senza precedenti del biennio 2008-2009 dovrebbe tradursi in una crescita senza precedenti negli anni a venire.
Se sarà così, l’economia degli Stati Uniti non diminuirà rispetto al resto del mondo. Potrebbe solo perdere capacità relativa rispetto all’economia cinese, supponendo che tutto vada bene per entrambe le economie, con una rapida crescita negli Stati uniti che agevoli una crescita più rapida in Cina.

Di contro, una prolungata stagnazione americana svilirebbe la domanda generale (e non solo americana) dell’export cinese, riducendo di conseguenza il tasso di crescita della Cina, dal momento che la domanda interna non può aumentare proporzionalmente, a causa di vincoli istituzionali, macroeconomici o strutturali, inclusa la dipendenza dalle importazioni.
(Traduzione di Laura Pagliara)

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