«Come Cristo in croce», quel grido di una battaglia già persa

di Stefano Zurlo
Un congedo in tre tappe. Don Verzè è morto la mattina del 31 dicembre, ma se n’è andato progressivamente, nell’arco di un mese dopo aver elencato per l’ultima volta i propri meriti e rimirato in controluce la caratura del San Raffaele. E’ il 2 dicembre scorso quando don Luigi prende carta e penna e scrive una lettera che ha tre destinatari: i pm che indagano sul disastro finanziario di via Olgettina; il consiglio d’amministrazione dell’ospedale; i giornalisti. E’ soprattutto a loro che si rivolge: da settimane il San Raffaele è sotto un diluvio di articoli feroci che stanno cavando la pelle al suo fondatore e stanno esplorando tutte le possibili ramificazioni dello spaventoso dissesto finanziario da 1 miliardo e mezzo.
Il giorno prima un quotidiano ha dipinto don Verzè come un capomafia e allora lui decide di reagire, anche se ormai il combattente di un tempo non esiste più. «Sono stato pregato di leggere una rassegna stampa - spiega il religioso - e oggi non posso più tacere». Don Verzè racconta in poche righe quel che ha fatto, quel patrimonio di medicina e scienza che resterà ai milanesi e agli italiani: «Mi sono proposto di non lasciare il mondo assistenziale come l’ho trovato: cameroni da 30-40 letti, spesso sgangherati, senza servizi. Solo i ricchi - rimarca polemicamente don Luigi - potevano accedere alle case di cura private, tenute soprattutto dai religiosi». Questa era l’Italia del primo dopoguerra e allora il giovane sacerdote veronese si è dato da fare: «Oggi guardo dalla finestra: il San Raffaele è completato; è conosciuto in tutto il mondo per la bravura dei suoi medici, infermieri, ricercatori e docenti». E’ l’orgoglio di chi ha compiuto una missione impossible. E il buco e l’inchiesta per bancarotta? «Oggi - insiste lui - il San Raffaele non è fallito. E’ stato messo sotto la protezione del Vaticano e della giustizia».
Sì, è vero, riconosce il sacerdote toccando uno dei moltissimi punti che gli sono stati contestati nei giorni della rovina, ho comprato un aereo, ma l’aereo serviva per andare «in India, in Africa, in America Latina, oltre che a Roma, a Cagliari, a Olbia, a Taranto, in Sicilia, dove la dottrina del San Raffaele veniva conosciuta e realizzata».
Il sacerdote non ci sta a farsi sommergere dagli attacchi e mette idealmente tutta la cittadella della salute sotto il suo mantello: «Del San Raffaele sono stato e sono io l’ispiratore; tutto quanto è stato necessario per la realizzazione di questa opera nella aspirazione alla ottimalità in ciascuno dei suoi versanti risale a me; nulla dunque di quanto essenzialmente connesso alla funzionalità del San Raffaele mi è estraneo». Potrebbe bastare, ma don Verzè non è certo, non è mai stato l’uomo delle mezze misure e parla anche di Mario Cal, il suo vice che si è ucciso: «Non so come Mario Cal abbia gestito nei particolari la sua funzione, ma escludo che abbia agito nel suo particolare interesse e comunque mi assumo tutta la responsabilità di quanto è stato compiuto». I giornali descrivono le tangenti, i fondi neri, gli sprechi colossali e don Verzè quasi li sfida riconducendo errori e deviazioni «alla «superiore finalità dell’Uomo realizzata dal San Raffaele». Quella lettera è un passo indietro ma è anche un atto d’accusa contro chi sta distruggendo in un colpo solo la sua immagine e quella dell’ospedale da lui fondato. Don Verzè arretra, ma non si sente un vinto: anzi si paragona a Gesù Cristo, morto in croce senza difendersi. Fra sputi e insulti. Quel riferimento alla croce, per quanto ardito, dà in realtà l’idea che la battaglia, perchè di una battaglia durissima si è trattato, sia ormai alla fine.
Il 19 dicembre ecco la seconda missiva, indirizzata al cda: «Ho pensato che in questo momento delicato è utile che io non partecipi alle sedute del consiglio». Poche righe, scritte a mano, fatto rarissimo per don Luigi, quasi a comunicare una stretta di mano d’addio.

Manca solo l’epilogo che puntualmente arriva dopo Natale: il cuore del fondatore del San Raffaele arranca e i suoi collaboratori gli consigliano l’ennesimo ricovero nell’ospedale ai bordi del quale vive.
Ma don Luigi, paziente di solito scrupolosissimo e anzi un po’ apprensivo, questa volta minimizza: «Ma no, non è niente, resto a casa». Don Verzè ha scelto di farsi da parte. La morte arriverà poche ore dopo.

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