La critica americana elogia il film e Smith corre ai Golden Globe

da New York

Felicità in inglese si scrive happiness. Ma il cartellone appeso sull'ingresso di un asilo nido della Chinatown di San Francisco promette agli scolaretti «Fun and Happyness»: qualcuno, piuttosto analfabeta, nemmeno ha saputo scrivere la parola felicità. Eppure la promette, ai bambini di quattro e cinque anni, insieme con il divertimento, come se entrambi fossero diritti assicurati dalla Costituzione. Il cui sogno, effettivamente, era di far felici tutti i cittadini, mettendo a loro disposizione l'American dream. Ma quando le cose vanno male, quando si rotola giù dalla china invece di risalirla, allora le disavventure diventano prima poesia e poi belle storie del cinema made in Usa. Che stavolta, per raccontare il copione del film più atteso del momento, ha cercato la mano magica di Gabriele Muccino. E lui ha fatto subito centro, al debutto a Hollywood, con The pursuit of happyness, che uscirà sugli schermi italiani il prossimo 12 gennaio come La ricerca della felicità.
Un'opera già applaudita dalla critica (la regina dei talk-show Oprah Winfrey l'ha definito, in lacrime, il film più bello dell'anno, così dando una spinta colossale ai botteghini) anche per la splendida interpretazione di Will Smith, che si è appena aggiudicato una candidatura ai Golden Globe. Il suo personaggio si chiama Chris Gardner ed è un nero che all'inizio degli anni Ottanta fa il rappresentante di una ditta di macchine portatili per radiografie. Con quella pesantissima valigetta sotto braccio Gardner cerca disperatamente di guadagnarsi da vivere, ma quando la moglie lo abbandona col figlioletto (interpretato da quello dell'attore, Jaden, che ha solo sette anni e talento da vendere come il padre) finisce col farsi sfrattare e dorme con lui sul pavimento di un bagno pubblico.
Il regista de L'ultimo bacio e Ricordati di me ha espresso grande soddisfazione per la nomination di Smith, ottenuta per il film uscito ieri nelle sale americane: «La sua candidatura mi rende particolarmente felice - ha raccontato dagli Stati Uniti al sito Cinematografo.it - ma il vero premio lo aspetto dal pubblico. Will mi ha salvato in un momento di profonda crisi creativa». Ma a suo volta anche Muccino ha aiutato la crisi creativa di Hollywood: «Smith ha voluto che fossi io a dirigerlo perché dice che i registi americani non sanno più raccontare l'American dream», ha ammesso. «Noi europei invece lo riconosciamo ancora, lo sappiamo toccare con mano».
Così in La ricerca della felicità, Smith riesce a ottenere un lavoro da una grande finanziaria: uno di quegli internship non retribuiti solitamente riservati ai figli dei ricchi. Ma lui, che ha fame, sa che bisogna partire da zero e sacrificare tutto per la carriera. Non è facile: quando un dirigente gli chiede di prestargli 5 dollari per pagare un taxi e il pubblico sa che sono gli ultimi soldi con cui deve comprare da mangiare per suo figlio, l'umorismo del film (che ricorda a volte Una poltrona per due, con Eddie Murphy) si trasforma nella melanconia dei più bei film di Frank Capra.
Il tocco magico di Muccino (probabilmente da Oscar)? Saper raccontare questa vicenda senza enfatizzare il colore della pelle di Smith. «Un regista americano l'avrebbe subito trasformata in una storia di puro razzismo», ha scritto il critico del New York Post. «Invece questo Paese si sta spostando oltre il razzismo ed è un bene che anche il cinema ne segua l'esempio».
Lontano dal grande schermo dal 2003, Muccino deve questa pellicola a suo fratello Silvio.

«È stato lui a portarmi a Will Smith», ha raccontato. «Un giorno mi chiama e dice che sul Corriere della Sera c'è un articolo in cui dice di voler fare un film con me. L'ho fotocopiato e girato ai miei agenti. Così siamo finiti a lavorare insieme».

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