"Vi spiego cosa c'è dietro l'estradizione". Così la madre di Saman vuol essere assolta

La presidente dell'associazione "Senza veli sulla lingua" racconta a ilGiornale la strategia di Nazia Shaheen per sfuggire a una condanna

Screen "Chi l'ha visto?"
Screen "Chi l'ha visto?"

Nazia Shaheen, madre di Saman Abbas, ha acconsentito all’estradizione verso l’Italia. Catturata il 31 maggio scorso, la donna è stata condannata in primo grado all’ergastolo, alla fine del 2023, insieme al marito Shabbar Abbas. Una pena di 14 anni è stata attribuita allo zio di Saman, Danish Hasnain, mentre i due cugini Ikram Ijaz e Noumanoulhaq Noumanoulhaq - che secondo la testimonianza del fratello della 18enne uccisa il 30 aprile 2021 ma anche di Danish sarebbero stati presenti sulla scena del crimine - sono stati assolti.

Ma cosa significa questo gesto a sorpresa di Nazia? IlGiornale se lo è chiesto insieme a Ebla Ahmed, presidente dell’associazione “Senza veli sulla lingua”, che contrasta le violenze di genere e il matrimonio forzato.

Ebla Ahmed, il consenso di Nazia all’estradizione è una buona notizia per la giustizia italiana?

“Noi siamo felici, ovviamente - insieme alle altre associazioni che si battono contro la violenza sulle donne - per la sua cattura. Ora ci sarà l’estradizione. Ma non è questo il punto: il punto è che, anche non l’avesse accettato, l’iter di estradizione ci sarebbe stato comunque e sarebbe stato più veloce rispetto al marito, perché su di lei pende già una condanna per l’omicidio della figlia. In carcere a Nazia faranno conoscere tutti i contenuti della misura cautelare e l’esito del processo di primo grado, andato avanti mentre lei era latitante. E in quel processo si è ipotizzato che potrebbe essere stata proprio lei l’autrice materiale del delitto”.

Ma secondo lei una condanna non è scontata, giusto?

“Mi auguro che il fatto che lei abbia acconsentito all’estradizione non sia visto come una collaborazione con la giustizia in fase di appello. Se avesse voluto collaborare si sarebbe consegnata subito. Lei invece si è nascosta per tre anni, indisturbata dall’altra parte del mondo, tutelata dal fratello poliziotto, figura professionale che in Pakistan è molto influente”.

È stato detto che Nazia fosse in casa all’arresto di Shabbar. È vero?

“In base alle nostre fonti sicure, Nazia non c’era. È stata sempre protetta dalla sua famiglia d’origine e quindi moglie e marito avevano comunque la possibilità di vedersi. Ma al momento dell’arresto di Shabbar lei non era presente, anche perché molto ben consigliata. Inoltre era vista come un’eroina in Pakistan. Fortunatamente, e anche di questo siamo felici, la diplomazia italiana e il governo non hanno mollato, non hanno mai smesso di cercarla. Senza dimenticare che in questo modo si è dato un segnale forte a tutto il mondo: nessuno può restare impunito per un omicidio che segue l’opposizione al matrimonio forzato. In altre parole, non c’è luogo in cui nascondersi di fronte a questo reato”.

La narrazione su Shabbar nel periodo di latitanza lo vedeva libero, alla luce del sole, alla testa di un rito religioso. Questa narrazione era esatta?

“Sì, è vero. Durante la sua latitanza viveva alla luce del sole, come si vede nei video che sono stati diffusi in quel periodo. Anche lui viveva indisturbato. Ma ricordiamoci che Nazia e Shabbar non vivevano a Islamabad, non erano in una capitale, ma in un villaggio rurale, dove dominano i clan, non molto diversi dalle famiglie mafiose e con un loro sistema di protezione”.

Quindi il paragone fatto al processo tra Saman e le grandi donne che si sono opposte alla ‘ndrangheta era più che corretto?

“Sì, e il paragone coinvolge anche la famiglia. E ora si tornerà a processo e io mi auguro che anche chi è stato finora assolto paghi. Inoltre è importante che si conosca sempre più - a tutela delle giovani donne - la pratica del matrimonio forzato, anche grazie al lavoro di associazioni come la nostra. Ci sono intere comunità che percepiscono la libertà di amare come un disonore. Per questo credo ci voglia una sentenza esemplare: l’assoluzione dei cugini e il non riconoscimento della premeditazione mi sembrano assurdi. Saman, a parte il matrimonio forzato, era stata comunque soggetta a violenza, perché le era impedito di vestirsi all’occidentale, di studiare e lavorare. Tre ragazze, dopo il caso di Saman, hanno trovato il coraggio di denunciare il matrimonio forzato. Ma di fronte a questa sentenza temiamo che possano ripensarci”.

L’iter per l’estradizione di Shabbar è stato lunghissimo. Perché quello di Nazia sembra molto più veloce?

“Perché, come detto, c’è già una sentenza. Lei è stata furba a non opporsi, perché sapeva che comunque l’estradizione ci sarebbe stata, dato che il Pakistan aveva collaborato con l’estradizione di Shabbar. Io spero che questo suo comportamento non porti a una vittimizzazione. Certo, quando Nazia arriverà in Italia racconterà la sua versione e quella versione coinciderà con quella del marito, perché hanno avuto la possibilità di concordarla. C’è però anche la versione del fratello di Saman, che ha avuto molto coraggio e mi auguro prosegua con il suo percorso psicologico. Sarà importante comprendere che anche le mamme e le sorelle talvolta rappresentano delle esche per le ragazze che si oppongono”.

In che senso?

“Molti vedono queste madri come vittime dei mariti ma non è così: lo abbiamo visto quando Nazia con il sorriso accompagna la figlia alla morte. Saman era tornata a casa per lei, convinta che si fossero tranquillizzati. Essere uccisi è di per sé terribile, ma immaginiamo cosa sia essere uccisi per mano di chi ti ha creato. Per questo è fondamentale accompagnare chi denuncia in un percorso psicologico e di mediazione culturale, in particolare a partire dalla scuola dell’obbligo, sotto forma di prevenzione. Solo così si può avere vera integrazione”.

La giustizia italiana non è punitiva. Ci può essere riabilitazione per chi è stato condannato per l’omicidio di Saman?

“Chi ha ucciso deve scontare la sua pena. Poi in carcere ci sono percorsi di recupero, a volte anche con gli imam, per far comprendere che il matrimonio forzato e l’omicidio d’onore non fanno parte della religione islamica. Ma chi è arrivato a uccidere una figlia - e in Italia ci sono tante Saman - come può cambiare? Ripeto: è necessario che scontino la pena. Io non sono nessuno per giudicare, ma scontare la pena per un reato è giusto. Anche per questa ragione spero che all’appello tutti i presenti sulla scena del crimine siano condannati.

Alla pena si deve aggiungere il rafforzamento della rete di protezione, che non può permettersi di sbagliare più: Saman non doveva andare a casa a prendere i documenti, perché aveva subito una violenza. Inoltre i luoghi di culto, insieme alla scuola, devono essere in prima linea per la prevenzione e l’informazione”.

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