"Morì per un neo asportato" ma era una balla. La sentenza scagiona due medici

Roberta Repetto vittima di un melanoma mai curato per le sue credenze ascientifiche. I giudici di Milano sbugiardano la procura di Genova che aveva dato la colpa a un'operazione chirurgica, facendo infuriare la comunità scientifica. Il ruolo del "santone"

"Morì per un neo asportato" ma era una balla. La sentenza scagiona due medici

Assolti dopo una gogna che da quattro anni li inchioda alla frase «neo asportato su un tavolo da cucina» due anni prima, le vite di due professionisti sono state stravolte per sempre da un’accusa che si è dissolta tra Genova, Roma e Milano, in mezzo c’è la vita di una povera ragazza con un melanoma da lei pericolosamente sottovalutato per una fervida fede olistica e ascientifica, dei parenti che non si danno pace, un sistema mediatico-giudiziario e una comunità scientifica finiti a loro volta su un tavolo operatorio, a brandelli, come la reciproca credibilità.

Succede (solo) in Italia, la storia della 40enne Roberta Repetto è una delle eredità della pandemia. È morta per un feroce melanoma che non le ha lasciato scampo, per la Procura di Genova era colpa di un neo (roba da far impallidire gli oncologi...) a loro dire mal asportato in condizioni igienico-sanitarie pietose e di un lavaggio del cervello che la vittima aveva subito. E invece no, non è andata come dicevano i giornali, innamorati di una storia in cui bene e male erano visibili: i carnefici per loro erano il chirurgo Paolo Oneda, arrestato in ospedale con l’accusa di omicidio; la moglie psicologa Paola Dora, che l’avrebbe irretita e cooptata, in mezzo il «maestro» del Centro Anidra Paolo Vincenzo Bendinelli, loro presunto complice nel manipolare coscienze già fragili.

Le accuse gonfiano quotidiani nazionali e no, trasmissioni tv e social ma si spengono in tribunale: al medico vengono dati 3 anni e 4 mesi, poi ridotti a un anno e 4 mesi in appello, la psicologa e Bendinelli vengono scagionati. La Cassazione annulla, Milano assolve Oneda perché «il fatto non sussiste». Altri cascami processuali restano appesi ai tempi biblici della giustizia, ma insomma abbiamo scherzato. La condanna per omicidio colposo è «illogica», frutto di una sorta di «disonestà intellettuale», scrivono i giudici. La morte non è figlia dell’imperizia del medico, né della manipolazione delle sue credenze. La vittima mescolava yoga-terapia a discutibili discipline alternative e hameriane. Alla sorella Rita Repetto questa sentenza fa ribrezzo («Visione inaccettabile, una cieca negazione»), ce l’ha coi giudici per cui Roberta, sulla base delle prove dettagliate in 47 pagine, non era manipolata ma «libera di scegliere uno stile di vita marcatamente naturista, con accentuata ritrosia verso i trattamenti della medicina tradizionale». Era felice e attiva fino al maledetto settembre 2020, quando il suo stato di salute è precipitato, scrivono i giudici. Non voleva farsi trasfusioni né ricoverarsi, né fare controlli ed esami strumentali, «tutti liberamente rifiutati». Anche il ritratto che ne aveva fatto la famiglia finisce a pezzi: la Roberta dipinta dalla Procura come isolata, e potenzialmente vittima di circonvenzione di incapace dal «maestro» (con il paradosso di una perizia psichiatrica post mortem criticatissima dai giudici di Milano) aveva invece una sua vita «senza apparenti problemi», un lavoro, viaggi in Italia e all’estero, seminari e convegni. Una quotidianità fuori e dentro il centro Anidra, non sapeva che lo spietato melanoma se la stava mangiando viva. I due professionisti mai avevano declinato o abbracciato le stesse condotte ascientifiche che la ragazza predicava cercando adepti, un cocktail di pseudo-teorie negazioniste secondo cui le neoplasie sono «il frutto di un complesso conflitto psichico che scatena uno shock emotivo e poi biologico», che si cura senza farmaci.

Roberta non credeva ai medici o agli ospedali, ne abbiamo visti tanti con il Covid. «Diffidava di Oneda quando le rare interlocuzioni avevano ad oggetto pareri o prescrizioni». Più che del neo asportato con perizia, con «uso di guanti chirurgici, telini, disinfettante, probabilmente Betadine» (altro che macellaio) o della biopsia mai fatta sullo stesso neo, Roberta era preoccupata della cicatrice e «dell’aspetto estetico della lacero-contusione» del neo che il chirurgo le aveva asportato. Se fosse stato analizzato, come Oneda le avrebbe consigliato, poteva salvarsi. Invece per il pm a ucciderla era stata proprio l’operazione.

Roberta insisteva via Whatsapp a convincere la psicologa Dora a «formarsi» sulle teorie biologiche, si scambiava messaggini con il «maestro» osteopata hameriano «riferimento» di Roberta, che sono invece stati attribuiti al medico, quasi omonimo. «A Oneda non possono essere mossi rimproveri nemmeno di natura colposa», la morte della ragazza come conseguenza dell’asportazione del neo - cosa che ha fatto rabbrividire la comunità medica per il pericoloso messaggio ascientifico - era per i giudici di Milano una «inammissibile forzatura interpretativa» dei colleghi di Genova.

«Io resisto a questo “belin” di dolore un po’ di mesi e poi guarisco da sola, perché nella mia testa di insegnante di yoga Wonder Woman quella era l’esperienza che mi serviva...», dice la vittima prima di morire per la sua fede naturista, prima ancora che di melanoma. Ma anche la giustizia diventa un cancro quando si accanisce sugli innocenti.

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