Forse nelle 368 pagine che l’avvocato Basilio Milio, difensore del generale dei carabinieri Mario Mori, ha dedicato - nel suo libro “Ho servito la Repubblica“, edito da Ornitorinco - al gigantesco imbroglio giudiziario chiamato “Trattativa Stato-Mafia“, a dire l’ultima parola sulla bufala ordita dalla procura della Repubblica di Palermo è un uomo che oggi non può più difendersi. Anzi, non poteva difendersi neanche quando il teorema mosse i primi passi, perché era provvidenzialmente morto poco prima. Si chiamava Francesco Di Maggio ed era, all’epoca della inesistente trattativa, il vicedirettore delle carceri. Pochi lo sanno, ma nel teorema costruito dal pm Antonino Ingroia e dai suoi colleghi, Di Maggio è il personaggio chiave: perché è lui, dicono, a dare corso alla richiesta di Cosa Nostra per fermare le stragi, ovvero la revoca del 41 bis, il carcere duro, a centinaia di mafiosi. Mori, dice la Procura di Palermo, recapita la richiesta a Di Maggio, e Di Maggio - grazie all’inanità dei suoi capi, il direttore del Dap Adalberto Capriotti e il ministro Giovanni Conso - fa uscire dal 41 bis 334 detenuti.
Di Maggio è morto, e questo ha reso di lui il colpevole ideale. Ma Di Maggio ha comunque parlato: attraverso quelli che ne hanno conosciuto la durezza implacabile, a volte spropositata. Sono le testimonianze che Basilio Milio riporta. Parla Olindo Canali, giovane pm brianzolo che Di Maggio voleva portare con se al Dap, la direzione delle carceri: «Uomo di un rigore terribile». Parla , de relato, anche Capriotti, e vorrebbe essere un insulto: «Un fottutissimo forcaiolo». Ma è un insulto che dimostra quanto demenziale fosse anche solo ipotizzare che Di Maggio fosse il ventre molle dello Stato, l’uomo adatto per raccogliere pavidamente gli ordini della Cupola mafiosa. E d'altronde in una intercettazione che sta circolando di nuovo in questi giorni, il consigliere giuridico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Loris D'Ambrosio, e il ministro Nicola Mancino mostrano tutta la loro incredulità davanti alla descrizione di un Di Maggio succube delle pretese di Cosa Nostra: "Io francamente di dire che Franco Di Maggio fosse favorevole all'alleggerimento del 41 bis lo escluderei", dice D'Ambrosio. Se c'era qualcosa che poteva stare a cuore a Di Maggio, dicono i due, era poter mandare i suoi uomini nelle carceri, convincere i boss a collaborare con la giustizia. Ce ne sono a bizzeffe, nel libro di Milio, di esempi che rendono inverosimile, quasi grottesca, la pervicacia con cui il teorema sulla trattativa Stato-Mafia è stato portato avanti per decenni, prima di inabissarsi definitivamente in Cassazione, lasciando in gramaglie le “vedove inconsolabili della trattativa“, quelli che a lungo hanno potuto “costruire fortune mediatiche e non solo sulla pelle delle persone per bene“, come scrive Milio.
Già, le persone per bene: come Di Maggio, come il generale Mori, i suoi colleghi Antonio Subranni, Mauro Obinu, Giuseppe De Donno, tutti uomini delle istituzioni mascariati come complici della furia mafiosa. La favola di uno Stato che si arrende (eppure intanto si catturava Riina, si catturava Provenzano, si azzerava la Cupola) è stata raccontata in tutte le salse e va in onda tuttora, riveduta e aggiornata. Ma dietro ci sono sempre le solite balle. Una di esse viene smontata da Milio con effetti quasi comici: perchè si scopre che la sostituzione di Nicolò Amato ai vertici del Dap non fu decisa per aprire la strada a Capriotti e a Di Maggio per eseguire i voleri mafiosi, ma perchè voluta dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Che ce l’aveva a morte con Amato perchè aveva fatto passare un giorno intero prima di rispondere a una sua telefonata. E in questo flash c’è tutto Scalfaro.
Ma come è potuto accadere tutto ciò? Come si è potuta spacciare Cosa Nostra, con le sue “dinamiche irrazionali e imprevedibili“ come un Leviatano in grado di manovrare lo Stato? Dal libro di Milio finalmente una risposta chiara: “Gli ufficiali dei carabinieri hanno sempre ritenuto che i loro guai giudiziari siano la conseguenza dello scontro con la procura di Palermo originato dall’indagine su mafia e appalti“. L’indagine che Borsellino voleva portare avanti insieme ai carabinieri del Ros, e che la Procura di Palermo archiviò, tre giorni dopo la strage di via D’Amelio. Ma questo meriterebbe un altro libro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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