Reporter di guerra si nasce o si diventa?

Articolo realizzato dai ragazzi partecipanti all'Academy a Sarajevo con Fausto Biloslavo: Gianluca Basciu, Marco Junio Coccari, Marco Scano

Foto a cura di Paolo Adduce
Foto a cura di Paolo Adduce

Per dare una risposta a questa domanda siamo volati con Fausto Biloslavo a Sarajevo per l’Academy de il Giornale. Un progetto che per la prima volta dalla redazione milanese si è trasferito sul campo per formare aspiranti inviati e fotoreporter di guerra.

Per fare questo abbiamo scelto la città di Sarajevo, che dal 1992 al 1995 fu teatro di uno degli assedi più lunghi e sanguinosi dell’epoca contemporanea nel Vecchio Continente.

Per tre giorni abbiamo visitato i principali luoghi simbolo del conflitto, ascoltato la voce dei sopravvissuti e protagonisti dell’epoca ma pure le testimonianze di chi vive la Bosnia di oggi. Abbiamo capito, sul campo, di quanto siano labili i confini tra il bene e il male, tra il giusto e lo sbagliato, e di come non si possano dividere in maniera salomonica i buoni dai cattivi e, andando avanti fino a tardi con Biloslavo, abbiamo appreso i trucchi del mestiere per affrontare il nostro futuro primo reportage di guerra.

Sarajevo viaggio
Foto a cura di Paolo Adduce

Il primo giorno abbiamo avuto l’opportunità di incontrare l’ambasciatrice italiana in Bosnia Erzegovina, Sarah Eti Castellani, che ci ha offerto un’interessante panoramica sulla situazione attuale del paese. Nel suo intervento, ha illustrato i delicati equilibri etnici, religiosi e politico-sociali che caratterizzano la Bosnia a trent’anni dagli Accordi di Dayton del 1995, soffermandosi anche sul percorso della nazione verso l’integrazione europea.

Srajevo viaggio academy
Foto a cura di Paolo Adduce

Da un inizio nel presente, il secondo giorno siamo tornati indietro agli anni Novanta, entrando simbolicamente nella città assediata dall’esercito serbo-bosniaco attraverso l’unica via di accesso terreste, il tunnel della salvezza, un tracciato sotterraneo di 800 metri sotto la pista dell’aereoporto – ai tempi controllato dei caschi blu – scavato nel 1993 per consentire il transito di persone, rifornimenti e armi. “Di notte, in silenzio, senza accendere una luce … mi infilo tra le pareti di legno… un budello alto un metro e mezzo e largo novanta centimetri”. Così Biloslavo ricorda cosa significasse quel passaggio e le molte difficoltà nell’attraversarlo. Tanti morirono nel tentativo di quell’impresa o sotto i colpi dell’artiglieria che incessantemente colpiva la città ferendo i palazzi – le cicatrici sono ancora visibili quasi a monito per il futuro – o sotto il tiro dei cecchini che la presidiavano dall’alto. I corpi dei caduti riposano ancora lì, gli uni vicino agli altri, musulamani, cristiani e atei, nei molti cimiteri che puntellano la città.

Sarajevo viaggio con Biloslavo
Foto a cura di Paolo Adduce

Si combatteva e si moriva anche al di fuori di Sarajevo, come sul monte Igman, soprannominato ‘panettone della morte’, che, collegando la città con l’area sotto il controllo dell’esercito bosniaco, rappresentava lo scoglio più difficile da superare per chi entrava o usciva dal tunnel. È quantomento curioso scoprire che di domenica mattina, proprio lì, in quel luogo, un piccolo manipolo di giovani ragazzi bosgnacchi in tenuta mimetica simula l’addestramento militare, in preparazione di quella che sembra essere una partita di soft-air. A pochi metri, un veterano di guerra, invalido al cento per cento, piange i due figli ventenni caduti tra quei boschi. Un’ultima salita sulle colline che circondano Sarajevo: arriviamo a un fortino diroccato che era una delle postazioni più importanti dei cecchini e dei mortai serbi che colpivano la città.

Sarajevo viaggio Biloslavo
Foto a cura di Paolo Adduce

Riconosciamo anche il cubo giallo del nostro hotel, il famoso Holiday Inn, alloggio dei giornalisti di tutto il mondo e che, ci racconta Biloslavo, venne trapassato da parte a parte dalla cannonata di un carro armato serbo. Abbiamo già tanto materiale multimediale per ricostruire il conflitto e la Sarajevo di oggi. Ma manca ancora la voce di chi quella guerra l’ha vissuta sulla sua pelle o ha pianto il sangue dei propri cari. Da entrambe le parti.

Biloslavo ci sorprende con ospiti d’eccezione: Idris Huric, detto ‘Gigio’, l’autista dell’ambasciata italiana, che a cento all’ora sulla “Sniper Alley”, la strada dei cecchini, portava i giornalisti dall’aeroporto all’hotel; Nihad Kreševljakovič, regista e produttore teatrale, che ricorda appassionato come il teatro cittadino fosse pienamente aperto anche durante l’assedio, perché la cultura e la bellezza danno speranza e voglia di vivere.

Sarajevo
Foto a cura di Paolo Adduce

Infine, l’ex capo della polizia di Pale – quartier generale dei serbo-bosniaci durante il conflitto -, Malko Koroman, che fu accusato e prosciolto dalla corte federale della Bosnia Erzegovina di crimini di guerra. Non mostra rimpianti ma ammette “che la guerra non ha portato nulla di buono, distruggendo la Sarajevo multietnica”. L’ex comandante parla solo la sua lingua e viene tradotto da Amra, la nostra guida bosgnacca di religione musulmana. È palpabile la tensione tra i due quando si parla di Srebrenica, dove le truppe serbo bosniache del generale Ratko Mladic massacrarono 8.000 musulmani nel luglio del ’95. Un genocidio sentenziato dal tribunale internazionale dell’Aia. Koroman non accetta questa definizione, ma ammette che è stato un crimine di guerra. Un solco incolmabile non solo semantico, che ancora oggi divide serbi e bosniacchi fino al rifiuto della stretta di mano alla fine dell’incontro a Pale. Un piccolo spaccato del fuoco che cova sotto la cenere di questo paese.

Articolo realizzato dai ragazzi partecipanti all'Academy a Sarajevo: Gianluca Basciu, Marco Junio Coccari, Marco Scano

Fotografie a cura di Paolo Adduce

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