
Tra le macerie di Gaza e le ombre di una tregua fragile, il Pentagono ha deciso di muovere la sua prima pedina. Duecento soldati americani, l’avanguardia di una forza internazionale di stabilizzazione, stanno per sbarcare in Israele. Non per combattere, ma per vigilare, coordinare, ricostruire. È l’inizio di una nuova fase — diplomatica, militare e simbolica — in cui Washington tenta di trasformare una guerra infinita in una pace possibile. Ma dietro l’annuncio della Casa Bianca si nascondono interrogativi pesanti: chi garantirà davvero la sicurezza? Chi raccoglierà le armi di Hamas?
Il Pentagono ha ordinato il dispiegamento di circa duecento soldati statunitensi in Israele, primo passo verso la creazione della Forza Internazionale di Stabilizzazione (ISF) prevista dal piano di pace promosso da Washington. Il contingente, guidato da un generale americano, rappresenta l’avanguardia della missione che, almeno nelle fasi iniziali, opererà esclusivamente da territorio israeliano con funzioni di comando, coordinamento e supporto logistico, senza entrare direttamente nella Striscia di Gaza. Durante la notte, "truppe statunitensi hanno iniziato ad arrivare in Israele come parte di una forza che contribuirà a supervisionare il cessate il fuoco a Gaza", scrive Abc News citando due funzionari. La squadra arriverà nel fine settimana dagli Stati Uniti e da altre basi in Medio Oriente. L'ammiraglio Brad Cooper, capo del comando centrale delle forze armate statunitensi, è giunto ieri in Israele.
Secondo quanto riportato da Reuters e Associated Press, la decisione arriva dopo giorni di contatti tra Stati Uniti, Israele, Egitto e Qatar, e mira a garantire una transizione ordinata una volta completato il ritiro israeliano. I militari americani saranno incaricati di coordinare gli interventi umanitari, garantire la sicurezza dei civili e addestrare le forze di polizia palestinesi che dovranno subentrare al controllo del territorio. L’obiettivo è costruire una cornice di sicurezza che permetta l’attuazione del cessate il fuoco e la nascita di un’amministrazione locale sotto supervisione internazionale.
Il mandato dell’ISF resta tuttavia in evoluzione. Le regole di ingaggio, la gestione del disarmo dei miliziani di Hamas e la neutralizzazione della rete di tunnel sotterranei sono ancora al centro di intense trattative. Al momento non è chiaro chi sarà responsabile della raccolta e distruzione delle armi pesanti. Fonti diplomatiche citate dal Wall Street Journal indicano l’Egitto come possibile garante di questa fase, vista la sua influenza su Gaza e la presenza costante dell’intelligence del Cairo nelle trattative.
Accanto agli Stati Uniti, la forza internazionale dovrebbe includere contingenti provenienti da alcuni paesi chiave del Medio Oriente. L’Egitto, che confina con la Striscia, avrà un ruolo di primo piano nella sorveglianza dei valichi e nella formazione delle nuove forze di sicurezza palestinesi. Il Qatar, che ospita la leadership di Hamas, sarà il principale canale diplomatico e finanziario per sostenere la ricostruzione, mentre la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti potrebbero contribuire con personale tecnico e mezzi per la logistica. Anche la Francia ha offerto supporto, dichiarandosi pronta a partecipare alle operazioni di monitoraggio, mentre l’Italia ha dato la disponibilità a inviare circa duecento carabinieri specializzati in missioni di stabilizzazione sotto egida ONU.
Nel frattempo, fonti del Dipartimento della Difesa americano hanno confermato che Cipro fungerà da base logistica per l’operazione, diventata negli ultimi mesi un hub strategico per il trasporto di aiuti e il pattugliamento aereo del Mediterraneo orientale. L’isola ospiterà anche parte del comando interforze e dei sistemi di sorveglianza che monitoreranno l’attuazione del cessate-il-fuoco.Tuttavia, non mancano le incognite. Hamas non ha ancora dato garanzie sul completo disarmo, e alcune fazioni interne continuano a opporsi a qualunque presenza straniera a Gaza. Anche in Israele permangono dubbi politici: secondo fonti vicine al premier Netanyahu, Tel Aviv accetterà il dispiegamento solo a condizione che la forza internazionale resti strettamente di supporto e non assuma compiti operativi sul terreno.
Per Washington, l’invio dei primi soldati rappresenta un segnale di impegno, ma anche una scommessa ad alto
rischio. La missione dell’ISF sarà infatti misurata non solo sulla capacità di mantenere la tregua, ma sulla possibilità di tradurla in un percorso politico duraturo che restituisca stabilità a Gaza e all’intera regione.