Il sangue, i cani, il vialetto buio: l'agguato di Sabaudia resta un mistero

Vincenzo Mosa nel 1998 fu colpito da un solo proiettile sparato alle spalle con un fucile caricato a cartucce calibro 12, quelle utilizzate solitamente per la caccia al cinghiale

Il sangue, i cani, il vialetto buio: l'agguato di Sabaudia resta un mistero

Una grande macchia di sangue, già in parte assorbita dal terreno umido, si trovava a diversi centimetri dal corpo, posizionato a pancia in giù vicino al cancello della villetta di via dello Scorpione, in zona Colle Piuccio a Sabaudia. Questa la scena che, venticinque anni fa, si è presentata agli occhi dei carabinieri. La sera del 2 febbraio 1998 fu ritrovato il cadavere dell’avvocato Vincenzo Mosa, 41 anni, personaggio locale di spicco nella lotta all'usura e al racket.

Al suo attivo oltre cento processi che lo rendevano un legale stimato e molto ricercato. Mosa aveva numerosi interessi: in particolare si occupava di politica militando nelle file del Movimento Sociale Italiano. A distanza di così tanti anni, nessuno sa chi lo ha ammazzato e il suo omicidio resta uno dei tanti misteri italiani irrisolti.

L’omicidio

Quella sera d’inverno, resa ancora più uggiosa da una leggera ma fastidiosa pioggerellina, Mosa non immaginava di avere un appuntamento con la morte. L’avvocato si era recato nell’abitazione estiva di Sabaudia per prelevare i due cani che teneva in giardino. Aveva detto alla moglie Eleonora che li avrebbe riportati nella casa di Roma dove viveva con la famiglia, ma quella è stata l’ultima telefonata che ha fatto alla donna.

Superato il cancelletto d’ingresso, Mosa fu colpito da un solo proiettile sparato alle spalle, da una siepe adiacente, con un fucile caricato a cartucce calibro 12, quelle utilizzate solitamente per la caccia al cinghiale o per assaltare i furgoni blindati. Un’arma potente che non diede scampo al legale. Il 41enne si accasciò al suolo con il viso poggiato sul terreno bagnato e un enorme buco aperto nella schiena. Il medico legale accertò che il corpo senza vita era rimasto in quella posizione, sotto la pioggia, per circa quattro ore, prima che la colf, avvisata dalla moglie, si affacciasse nel vicoletto per verificare se l’avvocato era ancora in casa.

Le prime indagini

La villetta di Mosa a Sabaudia

Al loro arrivo i carabinieri impiegarono molto tempo prima di raggiungere il cadavere, dato che i due cani, spaventati, impedivano a chiunque di avvicinarsi al loro padrone senza vita. Gli inquirenti, fin dall’inizio, hanno brancolato nel buio non essendoci nessun testimone oculare. Il lampione che illuminava l’ingresso, posto sulla stradina laterale in una salita alquanto isolata, poi, non funzionava, forse disattivato dall’assassino. Il parco, invece, era sprovvisto di telecamere di videosorveglianza, che al quel tempo erano ancora poco utilizzate.

Tra le numerose piste battute dagli investigatori prese piede il movente personale. Non si sarebbe trattato di una vendetta degli strozzini, non dell’azione dei criminali laziali, bensì di una storia di tradimento. A essere iscritto nel registro degli indagati fu Mauro Chiostri, un istruttore di canoa, che avrebbe avuto una relazione clandestina con la moglie di Mosa. L’avvocato, che si sarebbe accorto della tresca, avrebbe minacciato lo sportivo arrivando una volta anche a schiaffeggiarlo. Questo bastò ai giudici per incriminarlo, salvo poi assolverlo, dopo due gradi di giudizio, nel 2002. Chiostri ha sempre dichiarato di aver intrattenuto con la donna solo rapporti di natura sessuale e di non essere mai stato coinvolto sentimentalmente.

Chi era Vincenzo Mosa

L’avvocato Mosa, quattro figli, era sposato in seconde nozze con Eleonora. Prima di essere ucciso, aveva l’incarico di dirigere l’ufficio legale dello Snarp, il sindacato antiusura. Il legale operava soprattutto nel territorio di Sabaudia, a quel tempo stretto nella morsa del malaffare e del racket. Più volte era stato minacciato per la sua opera a favore delle vittime dell’usura, tanto da sentire il bisogno di chiedere il porto d'armi, che non gli era stato concesso. Tutti però sapevano che Mosa con sé aveva sempre una pistola.

L'avvocato assisteva come parte civile le persone vessate dalla banda della Magliana e da altre pericolose organizzazioni criminali e per questo, molto probabilmente, temeva per la sua vita. Eppure, nonostante questi elementi così evidenti, gli inquirenti non sono mai riusciti a trovare una pista credibile e la vicenda dell’avvocato antiusura di Sabaudia è finita nel dimenticatoio.

Il ricordo

Francesco Petrino
Il professore Francesco Petrino

“È incredibile che quel delitto sia rimasto impunito”. Uno degli ultimi ad aver parlato con Mosa fu Francesco Petrino, presidente onorario dello Snarp. Il giorno in cui l’avvocato fu assassinato lo sentì al telefono. “Come sindacato ci siamo impegnati fin da subito per sostenere coloro che seguivano le indagini - afferma a IlGiornale.it - ma con il passare degli anni di questa vicenda non si è saputo più nulla. Anche la famiglia ha preferito il silenzio. Della moglie di Mosa non ho notizie, mentre sono a conoscenza del fatto che uno dei suoi figli è diventato avvocato come lui. Quando ci sentimmo quel pomeriggio concordammo di mangiare una pizza insieme. Questa è l’ultima cosa che ricordo di lui in vita".

Petrino ha un pensiero fisso. “Nessuno mi toglie dalla testa - spiega - che la morte di Mosa sia avvenuta in conseguenza della sua attività professionale. Non ho mai creduto, anche quando sembrava si fosse individuato il colpevole, che si trattasse di una questione personale. Ho fatto diverse ipotesi agli inquirenti ma, a quanto pare, non sono mai state prese in considerazione”.

Petrino elenca le azioni promosse dallo Snarp per contrastare il fenomeno dell'usura. "Come sindacato non ci siamo mai fermati e, negli anni, abbiamo avanzato una serie di proposte di legge in materia, alcune delle quali oggi sono norme in vigore. Tra gli ultimi suggerimenti ci siamo occupati anche delle case all'asta, studiando un provvedimento che potrebbe permettere alle persone interessate di impugnare i possibili abusi e le eventuali prevaricazioni derivanti dall'attuale sistema bancario".

Giuseppe Mosa
Giuseppe Mosa, figlio della vittima

Uno dei figli del legale oggi fa lo stesso mestiere del padre. Giuseppe Mosa, 40 anni, è specializzato in diritto civile, diritto del lavoro e diritto amministrativo. "Quando è stato ucciso venticinque anni fa – racconta– mio padre era all'apice del successo.

Oggi, a distanza di così tanto tempo dal suo omicidio, è ancora ricordato da tanti colleghi del Tribunale di Latina che spesso incontro per la mia attività professionale. Molti di loro lo considerano ancora un modello da seguire”.

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