La prevenzione delle violenze di genere corre lungo un algoritmo. Esiste e viene usato un sistema che prende il nome di VioGèn, al momento oggetto di un approfondimento parlamentare in Italia: potrebbe rappresentare una svolta in termini di prevenzioni dei femminicidi, ma occorrono dovuti distinguo ed eccezioni. “VioGèn consente di avere un monitoraggio continuo, dinamico e integrato dei casi. Ma la componente umana resta fondamentale”, spiega a IlGiornale Milena Mariano, funzionaria di ente pubblico e dottoranda Unitus.
Dottoressa Mariano, che cos’è VioGèn?
“È un sistema algoritmico prognostico. Il nome è l’acronimo di Gender Violence Monitoring System. È stato sviluppato in Spagna e ha lo scopo di effettuare un monitoraggio completo dei casi di violenza di genere e valutare il rischio di recidiva da parte degli aggressori”.
Come funziona?
“VioGèn elabora i dati inseriti da esseri umani, principalmente esponenti delle forze dell’ordine, raccolti soprattutto in fase di denuncia attraverso un moduli specifici. In sede di denuncia vengono somministrati alla sopravvissuta alla violenza alcune domande che hanno attinenza con i fatti e i presunti reati denunciati, e si allegano anche documenti come referti medici, perizie, relazioni di professionisti come quelle dei servizi sociali, ispezioni”.
Poi?
“Poi c’è una seconda fase, di verifica, da parte degli operatori di polizia, con un monitoraggio nel tempo, durante il quale si può intervenire manualmente per modificare alcune informazioni. Quindi l'algoritmo calcola un livello di rischio che può essere classificato in cinque gradi: trascurabile, basso, medio, alto ed estremo. La polizia giudiziaria può intervenire manualmente modificando l’output. In base alla risposta del sistema algoritmico vengono decise le azioni da intraprendere, compresi, ad esempio, misure di custodia cautelare in carcere, allontanamento dalla casa famigliare, divieto di avvicinamento, apposizione del braccialetto elettronico. Il sistema possiede inoltre degli alert: in situazioni particolari vengono emessi avvisi, qualora ci possano essere pericoli per l’integrità della sopravvissuta”.
Quali sono le sue potenzialità?
“VioGèn consente di avere un monitoraggio continuo, dinamico e integrato dei casi. Tant'è che si aggiorna la valutazione dei rischi in base all'evoluzione della situazione, e questo permette di ottimizzare i protocolli di intervento sulle sopravvissute. Inoltre rappresenta un modo per garantire il coordinamento tra tutte le istituzioni pubbliche coinvolte: forze dell'ordine, sistema giudiziario, servizi sociali, medici ma anche personale operante all’interno delle procure, dei tribunali e magistrati”.
Qualcuno utilizza questo sistema?
“Sì, è in uso in Spagna dal 26 luglio 2007. In Italia è allo studio da parte della ‘Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere’. In altre parole si sta valutando se utilizzarlo anche nel nostro Paese come forma di prevenzione per le violenze contro le donne in generale e il femminicidio - viene utilizzato anche per violenze contro i minori. Ma dobbiamo ricordare sempre che si tratta di un supporto”.
Cosa significa?
“Significa che la componente umana, ossia il ruolo delle forze dell’ordine e della magistratura nel valutare i casi, resta centrale. E poi ci sono delle problematiche sottese: nonostante abbia delle grandi potenzialità, l'impiego di questi sistemi presenta anche dei limiti e dei rischi significativi. Tant'è che in Spagna si sono verificati dei casi in cui il sistema aveva rimandato a un rischio basso la possibilità di recidiva, mentre successivamente si sono verificati degli omicidi, nello specifico sia un femminicidio che un omicidio di minori”.
Cos’è accaduto?
“C’è stato per esempio nel 2018 il caso Itziar Praz, per cui è stata riconosciuta la responsabilità dello Stato nell’omicidio di due bimbe per mano del padre: VioGèn aveva dato una valutazione di rischio bassa, a seguito di una catena di errori che coinvolgeva non solo gli agenti incaricati della raccolta dati, che avevano utilizzato una versione obsoleta dello strumento, ma anche degli operatori di diritto”.
Quindi VioGèn ha dei limiti?
“I limiti che incontra questo sistema sono innanzitutto la presenza di bias algoritmici. Quindi non sempre questi sistemi sono neutrali, perché addestrati su dati che possono riflettere o amplificare pregiudizi e discriminazioni presenti in una società. E quindi l’algoritmo rischia di cristallizzare e legittimare pregiudizi rivestendoli di un'aura di scientificità”.
Un algoritmo “lombrosiano”.
“Sì, perché il sistema spesso riporta i pregiudizi degli esseri umani. Rende bene, per capire, la delibera del Csm dell’8 ottobre 2025, ‘Raccomandazioni sull'uso dell'intelligenza artificiale nell'amministrazione della giustizia’, che recita come ogni intelligenza artificiale ‘incorpora tutte le imprecisioni contenute nel database di addestramento nonché gli eventuali pregiudizi di chi ha progettato il sistema’. Sostanzialmente: potrebbe essere opportuno introdurre VioGèn in Italia con una sperimentazione, ma la decisione finale deve restare umana. La giustizia non può essere disumanizzata, perché la funzione del magistrato non è solo coerenza ma anche equità”.
Cioè?
“La giustizia non è soltanto un mero calcolo, ma anche comprensione dei fatti. L'algoritmo può eseguire dei calcoli anche complessi, può ragionare sulle statistiche in maniera molto più veloce, può trattare milioni di dati in maniera superveloce rispetto a qualsiasi persona fisica, ma non può comprendere il significato di una testimonianza, il peso di una sofferenza, il valore della dignità umana. Tuttavia questi strumenti, se usati con attenzione, consapevolezza e opportuni aggiornamenti in caso di obsolescenza, possono essere utilissimi”.
Quali altri strumenti possono essere utili contro le violenze di genere?
“La formazione degli operatori è fondamentale. Il Codice rosso la prevede per alcune figure, come le forze dell’ordine, ma in casi di questo tipo ci sono altre figure in campo, come medici, magistrati, impiegati pubblici, assistenti sociali. Inoltre, la formazione sulla parità di genere - teorica, pratica e multidisciplinare - deve essere più accurata, perché è nelle disparità che si annida il seme della violenza. È inoltre importante che tutte le banche dati vengano integrate, per evitare la frammentazione delle informazioni per le forze di polizia. Al momento, ad esempio, molte banche dati non sono consultabili dalla polizia locale, che è spesso la polizia più prossima al cittadino. Qualora VioGèn fosse introdotto, sarebbe opportuno che anche tutte le polizie locali d’Italia vi potessero accedere, per sventare casi di violenza intercettati, ad esempio, durante dei meri controlli di polizia stradale”.
C’è dell’altro?
“C’è una mentalità da scardinare. Il rischio di victim blaming si presenta troppo spesso nei casi di violenza di genere e può indurre spesso le vittime a non denunciare per paura di non essere credute o di aver indotto, con il proprio comportamento, l’aggressore a perpetrare violenza. Più in generale c’è una mentalità da rimettere in discussione.
E la mentalità si scardina attraverso incontri nelle scuole con figure esterne specializzate nel campo: la scuola ha il ruolo non soltanto di insegnare, ma anche di aprire la mente, di educare, anche, in questo caso, a riconoscere una manipolazione, che spesso precede una violenza di genere. Può servire anche stimolare a denunciare e a non ritirare la denuncia, ma vanno implementati strumenti come il reddito di libertà e il congedo dal lavoro per le sopravvissute alla violenza”.