Oggi parliamo della nostra famiglia, il resto per un giorno può attendere, perché la notizia l'abbiamo in casa. E purtroppo non è una bella notizia. Ieri ci ha lasciato Paolo Granzotto, una delle firme più prestigiose del nostro Giornale, forse la più amata dalla maggior parte di voi che da quarant'anni ci seguite con passione e affetto. Paolo aveva 76 anni, da qualche tempo era acciaccato come capita a chi ha vissuto fino in fondo, ma non immaginavamo potesse farci questo scherzo senza neppure un piccolo preavviso. Venerdì sera, puntuale come sempre, è arrivato in redazione via email il suo «Angolo», la rubrica quotidiana che dava la rotta alla pagina del dialogo con i lettori. Poi il silenzio, e quando abbiamo capito cosa stesse succedendo, ormai era già troppo tardi per un ultimo saluto.
Del resto lui nella vita era così, fermo nelle idee ma discreto, mai sopra le righe, sempre lontano dai riflettori, quasi schivo. Figlio d'arte, pupillo di Montanelli, ha servito Il Giornale come un soldato: cronista, inviato di guerra, vicedirettore, polemista sferzante, sapeva usare con eleganza tutta la tastiera del giornalismo. Personalmente gli devo molto, fu lui a innescare la mia fortunata carriera assumendomi nel 1986 una prima volta al Giornale dopo che casualmente ci eravamo trovati a lavorare insieme - lui già grande inviato, io ragazzo di bottega - sul fronte della guerra civile libanese. Ma non sono l'unico ad essere in debito professionale ed umano con Paolo.
Così, insieme ai colleghi, e certi di interpretare l'abbraccio dei suoi lettori, abbiamo pensato di fare uno strappo alla regola e ricordarlo qui, nella colonna più nobile del suo Giornale: l'onore delle armi a uno degli ultimi ufficiali gentiluomini del giornalismo italiano.
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