Adesso la Ue deve diventare meno buona

Nelle temperie odierne, si può conseguire l'integrazione necessaria con più facilità perseguendo politiche concrete che ricercando complesse architetture formali

Adesso la Ue deve diventare meno buona
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L'incontro in Alaska tra Trump e Putin per chi farà suonare la campana? Certamente per l'Europa, e non per la prima volta. Gli americani stanno provando a salvare le apparenze. Ma a Ferragosto discuteranno da soli con i russi di equilibri che toccano anche la nostra sicurezza. E l'assenza europea non può considerarsi un incidente di percorso. È, invece, sintomo di debolezza strutturale. Da anni inseguiamo dispute teoriche sul futuro dell'Unione: federale o intergovernativa. Mentre nel mondo si ridisegnano, in modo tutt'altro che astratto, assetti e sfere d'influenza. Quelle discussioni avevano un senso ai tempi dell'Europa dei Sei. Oggi sono poco più che vani esercizi di stile, con ventisette Stati diversi per cultura identitaria, dimensioni, interessi e priorità, insistere con l'ingegneria istituzionale rischia di allontanarci ancor più dalla realtà. L'ipotesi federalista - ce lo ha ricordato Giovanni Orsina sulle colonne di questo giornale - è tramontata nel 1954 con la bocciatura della CED. Nel 1958 l'accettazione da parte di De Gaulle dei Trattati di Roma ha dato un colpo mortale anche a una soluzione coerentemente confederale. E nel 2005 il naufragio della Costituzione ha fatto definitivamente venir meno la simmetria tra integrazione economica e integrazione politica. Da allora in poi, ogni passo avanti che necessita di un verdetto popolare rappresenta per l'Europa un pericolo mortale: Brexit docet.

Dal passato, insomma, possiamo ricavare una lezione in fondo semplice: nelle temperie odierne, si può conseguire l'integrazione necessaria con più facilità perseguendo politiche concrete che ricercando complesse architetture formali. Servirebbe, a tal fine, un approccio pragmatico e non massimalista che di volta in volta individui il modo di trasformare l'interesse comune in un potere effettivo di decidere e agire. Ciò vale innanzitutto per il campo della difesa e per la conquista dell'autonomia strategica. La sottoscrizione italiana alle dichiarazioni congiunte pro-Kiev di qualche giorno fa, in questo senso, non può considerarsi solo un atto simbolico. Il Governo, con essa, ha riconosciuto che l'interesse nazionale si difende dentro l'Europa. Perché, nell'epoca della "deglobalizzazione" geopolitica, non esiste più la possibilità di delegare interamente la sicurezza a Washington. Neppure per uno Stato che intenda costruire con l'America un rapporto privilegiato. E tale realistica constatazione è la premessa necessaria per quanti tengono a preservare il rapporto transatlantico. La politica, soprattutto in ambito internazionale, è l'arte di perseguire il possibile per quanto difficile l'obiettivo possa apparire. Non certo quella d'inseguire l'impossibile. L'Europa, dunque, deve presidiare in prima persona i dossier chiave: a est sostenendo l'Ucraina senza troppe concessioni prima di un cessate il fuoco con Mosca; a sud, affrontando il secondo fronte sempre più instabile che va dalla Libia al Medio Oriente. Per far questo, non è necessario dotarsi di un esercito europeo. Basta rafforzare il coordinamento e il pilastro europeo della Nato, chiarendo quali siano le competenze dell'UE e quelle delle nazioni che la compongono. Cambiare passo sul versante economico è ancora più importante. Stati Uniti e Cina proteggono le loro industrie con dazi, sussidi e barriere. Mentre Bruxelles resta l'arbitro inflessibile della concorrenza interna, frenando fusioni e politiche industriali comuni. In questa strana forma di liberismo "politicamente corretto", noi rispettiamo regole che i concorrenti ignorano, mentre loro usano la leva del potere economico per consolidare il proprio primato. Abbiamo anche impedito la nascita di campioni europei, preferendo un mercato frammentato alla possibilità di sfruttare la nostra massa critica continentale. Sono lussi che non possiamo più permetterci. Il mondo si deglobalizza in ambito geopolitico, ma le regole economiche restano quelle di prima.

E l'Europa, se vorrà ancora contare qualcosa, dovrà smettere di guardarsi l'ombelico. E attrezzarsi a competere. Perché solo rinunciando al ruolo di "custode supremo" della moralità universale potrà fronteggiare il mondo che cambia, invece di esserne schiacciata.

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