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In Ungheria e in Francia Victor Orbán e Marine Le Pen festeggiano come se avessero vinto loro le elezioni italiane

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In Ungheria e in Francia Victor Orbán e Marine Le Pen festeggiano come se avessero vinto loro le elezioni italiane. A Mosca gli uomini di Putin sperano che il rapporto con il nuovo governo di Roma possa essere «più costruttivo». Sull'altro fronte i vari leader della socialdemocrazia europea pongono degli altolà o si sbilanciano nella profezia di scuola su ogni populismo: «Sarà una catastrofe». Ma si sa, questi mondi corrono in soccorso degli s.o.s. della sinistra italiana, che sta vivendo un altro momento tragico, e puntano a logorare il nuovo equilibrio come hanno fatto spesso in passato con il Cav a Palazzo Chigi.

Il nascituro governo Meloni, quindi, è stretto tra lusinghe e minacce. Tirato per la giacca o oggetto di intimidazioni più o meno velate. La posizione più pragmatica è stata quella di Washington. Il segretario di Stato Antony Blinken ha dichiarato che l'amministrazione Usa «è ansiosa di lavorare» con il nuovo governo «perché l'Italia è un alleato fondamentale, una democrazia forte e un partner prezioso». Un calcio negli stinchi ad Enrico Letta e compagni. Ovviamente, la richiesta è quella di mantenere la linea di politica estera a cominciare dalla questione Ucraina.

E qui arriviamo ad uno spunto di riflessione per le anime sovraniste della nuova maggioranza. Mai come ora il Paese per affrontare le incognite internazionali e la crisi economica deve costruire legami forti con i tradizionali alleati a Washington e Bruxelles: la pandemia, la guerra e ora la crisi del gas dimostrano che non ti salvi se ti isoli, che le grandi scelte si fanno in Europa o nella Nato. La caduta dell'economia inglese, figlia della Brexit, ne è l'ultima conferma. Ecco perché sulla politica estera non si scherza. E, a dir la verità, dopo la pandemia i populisti nostrani hanno cambiato le loro posizioni: ormai l'Italexit, per anni un leitmotiv, è stata cancellata dal loro vocabolario. Tutti ammettono che in Europa bisogna starci, magari difendendo di più gli interessi del Paese.

Il punto, quindi, è quello di tenere la barra a dritta e di non lasciare dubbi sul tasso di atlantismo ed europeismo del nuovo esecutivo. Perché un conto è dissertare con spregiudicatezza su questi temi quando si è all'opposizione o al riparo di un governo tecnico, un altro è lasciarsi andare a teorie stravaganti quando si è nella stanza dei bottoni. Lì l'eco dei discorsi che si pronunciano e la sensibilità dei nostri alleati aumentano a dismisura. Questa è la prima prova di affidabilità e, per citare Meloni, di «responsabilità» per la maggioranza di centrodestra. Una prova a cui non può sottrarsi: nella prima Repubblica, la politica estera non era un punto del programma di governo, ma la precondizione per farlo nascere; negli ultimi anni, crollati i muri, l'attenzione verso questi temi si era affievolita, ma ora che le lancette della Storia sono state spostate indietro i nostri interlocutori non tollerano più distrazioni.

E in fondo la funzione di Forza Italia nella coalizione è proprio quella di «garantire» che l'Italia continuerà ad essere un presidio dell'Europa e dell'Occidente. Un ruolo essenziale a cui non può abdicare il partito di Silvio Berlusconi e che forse ne spiega pure la tenuta elettorale.

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