Cronache

Caporalato, lavoratori sfiniti nei lager di due aziende agricole

Le violenze fisiche e psicologiche erano all'ordine del giorno. Emblematica un'aggressione conclusasi con la frattura di un arto e 30 giorni di prognosi

Caporalato, lavoratori sfiniti nei lager di due aziende agricole

"Gli imprenditori non hanno ancora compreso la gravità di tale condotta". Sono dure le parole pronunciate dal colonnello Nicola Lorenzon, comandante provinciale dei Carabinieri di Foggia, in seguito al blitz messo a segno all'alba di domenica 10 febbraio contro il caporalato e lo sfruttamento del lavoro. Nel mirino delle investigazioni, condotte con tempi e modalità differenti, sono finite due aziende medio-grandi della Capitanata. Si tratta della 'Ortofrutta De Martino', con sede a Zapponeta, che conta nei periodi delle campagne stagionali fino a 200 lavoratori. E della 'Perugini Libero', con sede a Foggia, che si occupa di raccolta e trasformazione di ortofrutta con picchi fino a 100 dipendenti.

Nel dettaglio sono tre le ordinanze di misura cautelare (una in carcere, due ai domiciliari) eseguite. Sono così finiti nei guai gli imprenditori Libero Perugini (classe 1982), Giovanni Capocchiano e Natale De Martino (entrambi classe 1954). Colpiti dall'ordinanza anche tre collaboratori dei suddetti. Tutti di origine straniera (uno della Nuova Guinea, due del Marocco) il loro ruolo era quello di individuare la manodopera da impiegare a basso costo e in condizioni di sfruttamento. La stessa, per la maggior parte, veniva acquisita dai ghetti di migranti presenti sul territorio. Attualmente sono ricercati all'estero.

L'operazione del 10 febbraio è l'esito finale di due distinte attività investigative dirette dalla Procura della Repubblica di Foggia e finalizzate al contrasto dell'insidiosa piaga del caporalato. Un pool appositamente costituito in seno alla Procura e l'intervento del Nucleo Ispettorato del Lavoro ha permesso di individuare all'interno della realtà lavorativa delle due aziende la presenza di operai sfruttati sia da un punto di vista economico, sia psicologicamente. Tra i lavoratori vi erano braccianti di origine africana (con paghe da 3,50/4 euro all'ora) e di origine albanese (pagati 6,50 euro all'ora). La differente paga risponde al diverso grado di disperazione o di stato di bisogno.

I braccianti, sistemati in roulotte e bungalow fatiscenti nei pressi delle aziende, erano costretti a pagare al caporale una pigione mensile di 15 euro per vivere in luoghi angusti e dalle condizioni igieniche pessime. Come se non bastasse, nei confronti delle vittime venivano mosse minacce, violenze e vessazioni psicologiche. Emblematica un'aggressione conclusasi con la frattura di un arto e 30 giorni di prognosi. A ribadire lo stato di subordinazione, negli stessi ambienti era affisso un cartello che minacciava la perdita del titolo abilitativo alla permanenza sul territorio nazionale in caso di licenziamento o di dimissioni del lavoratore. L'orario standard di 10 ore, solo talvolta prevedeva una pausa minima. Del tutto assenti, invece, i periodi di riposo e di malattia.

Numerosi i reati contestati ai responsabili: intermediazione illecita, sfruttamento del lavoro, false dichiarazioni all'Inps, violazioni amministrative riguardanti il settore della sicurezza e dell'igiene dei luoghi di lavoro. Nel 2019 la lotta al caporalato in Puglia non ha conosciuto un attimo di tregua. Si è infatti registrato un +58%, passando dagli 8 arresti del 2018 ai 55 dello scorso anno. Stessa cosa per le denunce (+426%) con un balzo a 100 rispetto alle 19 dell'anno precedente.

Basti inoltre pensare che solo nel foggiano 51 soggetti sono stati indagati per sfruttamento della manodopera.

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