Di chi è colpa se oggi il Paese non si mobilita contro il virus

A segnare la differenza fra l'ondata di contagi di marzo e quella attuale c'è un dettaglio impossibile da misurare con gli strumenti della scienza, ma che pesa più di tutti i dati medici

Di chi è colpa se oggi il Paese non si mobilita contro il virus

Oltre al conto delle terapie intensive, l'età media dei pazienti e l'incidenza dei positivi sul numero dei tamponi, a segnare la differenza fra l'ondata di contagi di marzo e quella attuale c'è un dettaglio impossibile da misurare con gli strumenti della scienza, ma che pesa più di tutti i dati medici. Non riguarda il virus, bensì la popolazione, e dunque giustamente non se n'è accorto un immunologo, bensì un politico. Nella fattispecie il governatore del Veneto Luca Zaia, che in un'intervista a Rai News ha svelato l'uovo di Colombo: «Rispetto alle misure preventive di primavera - ha spiegato - non vedo la stessa chiamata di popolo».

Che Zaia sia fra gli amministratori più attenti all'anima della propria gente, lo dimostra il gradimento da record con cui è stato riconfermato. Ma al di là dell'idem sentire con i Veneti, il governatore ha centrato una questione fondamentale, cioè il diverso approccio degli italiani al virus, alla sua diffusione, alla sua pericolosità e ai sacrifici richiesti in nome di un bene superiore, ovvero la sicurezza sanitaria.

Tutti ricordiamo nitidamente l'aria che si respirava a marzo, con le agghiaccianti storie dei nonni intubati, le foto dei camion che portavano via i cadaveri da Bergamo, il silenzio angosciante nelle strade. La situazione ignota e perciò terrificante, unita al cordoglio generale, aveva compattato il popolo: la stragrande maggioranza del Paese era pronta a fare il suo, a rinunciare alle proprie libertà e spesso a parte dei propri guadagni per uscire dall'emergenza.

Il fatto è che - più del virus - a mutare in questi mesi è stato proprio quel sentimento. E questo è accaduto per molti motivi. Primo, esistono dei limiti fisiologici alle privazioni che si possono richiedere, soprattutto in un'epoca in cui l'ascetismo non è esattamente il pane quotidiano. Secondo, la mobilitazione collettiva è un po' come il coraggio di Don Abbondio, un popolo da solo non se la può dare. Va stimolata con esempi e una comunicazione seria, e di entrambi c'è stata carenza da parte di troppe istituzioni. Un paio di esempi: se per mesi si insiste sui bonus vacanze e si riaprono le discoteche, il messaggio è «divertitevi e godetevi l'estate», non «fate attenzione perché il virus non è sparito come il babau quando vi svegliate da un brutto sogno». Se il leitmotiv è «questa ondata non è come a marzo», che epidemiologicamente sarà pure vero ma poco lungimirante da dire, il messaggio è «non c'è bisogno di essere scrupolosi nel rispetto delle regole come a marzo». E se il governo pasticcia con cassa integrazione, bonus, dpcm contraddittori a raffica, banchi a rotelle e mezzi pubblici, il popolo inevitabilmente perde compattezza. Il risultato è che tanti borbottano sfiduciati, ma poi danno comunque prova di grande responsabilità; ma una porzione sempre crescente si sente legittimata a farsi gli affari propri. Al bene comune e al senso civico si sostituiscono i propri bisogni, e tutto è lasciato alla sensibilità individuale, che va da chi se ne impipa di tutto e tutti a chi osserva rigorosamente le regole. E non c'è cosa più difficile da gestire di una massa divisa in singoli che vanno in direzioni opposte.

Per cui, a ben vedere, forse sarebbe più corretto dire che la «chiamata di popolo» c'è stata, solo che spesso è stata tardiva, flebile, divisa e dunque poco convincente.

E soprattutto il pulpito da cui è partita - dal governo ai sindaci, da certi scienziati a certi governatori, anche se di certo non Zaia -, non è più giudicato credibile. Come sempre, la virtù sta in mezzo. Ma anche le colpe.

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