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Il codice del fare

C'è un paradosso tra le difficoltà che il nostro Paese incontra ad avviare i progetti del Pnrr e le polemiche con cui è stata accolta la riforma del codice degli appalti da parte dell'opposizione

Il codice del fare

C'è un paradosso tra le difficoltà che il nostro Paese incontra ad avviare i progetti del Pnrr e le polemiche con cui è stata accolta la riforma del codice degli appalti da parte dell'opposizione. Una contraddizione grande come una casa che dimostra come l'incapacità a spendere risorse e a realizzare opere è per noi un problema strutturale, ma ogni volta che si tenta di affrontarlo si incontrano riserve, dubbi, diffidenze e le solite strumentalizzazioni che fanno parte del bagaglio della nostra politica.

Parlo delle difficoltà del Paese e non dell'attuale governo, appunto, perché l'incapacità italiana di spendere i soldi che arrivano da Bruxelles è proverbiale in Europa e appartiene, purtroppo, agli esecutivi di ogni colore. Ad esempio, ora tiene banco il tema del Pnrr: in questo caso le procedure sono state anche velocizzate eppure ci sono ritardi e ostacoli duri da superare. E non vale neanche il paragone con il governo dei «tecnici», con Draghi. Perché fin quando si trattava di approvare le riforme che ci chiedeva la Ue - cioè il compito che ha svolto egregiamente l'esecutivo precedente - siamo stati al passo, poi quando si è trattato, come si dice in gergo, di «mettere a terra» i progetti allora sono nati i problemi. Problemi che ha incontrato e incontrerebbe anche oggi, se c'è un minimo di onestà intellettuale, lo stesso Draghi. La ragione è semplice: nei meandri della nostra burocrazia, delle mille leggi, dei mille organismi che regolano le funzioni dello Stato, duole dirlo, si può perdere chiunque. Anche Leonardo o Archimede non saprebbero che pesci prendere.

La verità è che la nostra macchina statale e tutta la catena di orpelli, doppioni, filtri che l'accompagnano è irriformabile o ci vorrebbero anni. Per cui l'unica opzione per assicurarsi tempi sicuri è saltare certi meccanismi a piè pari, o, comunque, ridurne il peso. È l'insegnamento arrivato dalla ricostruzione in tempi brevi del ponte Morandi a Genova. È quella la filosofia della riforma del codice degli appalti messa in cantiere dall'attuale governo. Da una parte è un'ammissione di impotenza perché ci si rende conto che riformare tutti gli organismi che sovrintendono a questo compito è come la fatica di Sisifo. Dall'altra si sceglie strada diversa per non tenere fermo il Paese, per modernizzarlo, per adeguarlo ai tempi del mondo d'oggi: si punta cioè sulla fiducia tagliando il cerchio di regole che lo soffoca e ne rallenta oltremodo lo sviluppo. Di ciò dovrebbe esserci contezza anche nell'opposizione e nel sindacato. Invece si lanciano sospetti sulla possibilità che assegnando con più facilità appalti senza gara si indebolisca il principio di concorrenza, o si avanzano dubbi sui rischi che possono determinare regolamenti più semplici sul piano della corruzione o delle infiltrazioni mafiose. Riflessioni che hanno un senso, ma è anche vero che stiamo parlando di un «codice degli appalti» non di «un codice penale». La concorrenza la garantisce il mercato mentre il controllo della legalità è un compito della magistratura, appartiene ad un'altra sfera. Senza contare che a volte maggiori controlli o iter di approvazione più lunghi aumentano - dispiace dirlo - le occasioni di corruzione.

E in questo momento l'Italia se vuole recuperare il tempo perduto, se desidera aumentare il suo tasso di efficienza, se non vuole perdere altre posizioni nella classifica dei Paesi che funzionano, deve darsi innanzitutto un «codice del fare».

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