Il boia e l'impiccato stanno agli estremi della stessa fune. Uno ha il potere della violenza in pugno, l'altro i suoi segni sul collo. Ma quando il boia perde quella presa, quando il sistema che legittima la sua mano si ribalta e lui passa sul banco degli imputati, non ha che due scelte: accettare il rovesciamento dell'autorità e la fine del mondo morale in cui esercitava il suo dominio, oppure ribellarsi, scegliendo di infilare la testa all'altro capo della corda, perché la corda è la sua unica legge.
L'immagine di Slobodan Praljak che tracanna la boccetta di veleno davanti al suo giudice colpisce come le foto delle fosse a Srebrenica. Ma lo fa in modo diametralmente opposto, toccando corde diverse e indicibili dell'animo umano. Non la pietas e l'emozione per migliaia di civili inermi massacrati, ma il sublime in senso romantico, sub-limen, a un passo dal limite. C'è qualcosa di innegabilmente ammaliante nel male che eleva il male all'ennesima potenza col solo scopo di non lasciare l'ultima parola ai signori in giacca e cravatta che lo condannano. Lo disprezziamo per la ferocia, ne abbiamo orrore per i crimini di guerra, gli auguriamo di finire in un inferno ancor peggiore della Bosnia del '93. Ma nessuno resta indifferente a un signore dalla barba bianca che si ammazza nel cuore dell'Europa sputando la sua vita sull'Europa tutta.
La banalità è il terreno minato delle parole mal adoperate, come «eroico». Il gesto di Praljak non lo è per molti motivi. È un'uscita di scena teatrale, imitazione di Göring a Norimberga, o Göbbels e Hitler nel bunker. Ma ha una sua grandezza e una sua coerenza malata. È l'estrema rivendicazione di un sistema di valori vissuti fanaticamente, fino al rifiuto plateale della giustizia «aliena». È la testimonianza fisica della coesistenza impossibile tra il codice etico della sopraffazione e della guerra etnica e quello delle democrazie occidentali che la violenza cercano di eliminare. Il suicidio di Praljak è una fiera ed egoistica rivolta a chi ha spazzato via i suoi ideali di onore, nazione e razza, i capisaldi di un militare che agiva per il suo Paese anche a costo di stupri e stragi.
C'è molto di marziale ed ideologico nel gesto di un uomo così imbevuto del suo tempo tanto da esserne avvelenato, ben prima che dalla boccetta. «Slobodan Praljak non è un criminale», ha detto di sé in terza persona, con lo sguardo alto di chi non ha nulla da rimproverarsi e boia non si sente. Perché non c'è pentimento o depressione in chi ha vissuto la guerra dei Balcani, né può esserci paura o accettazione della pena in chi odiava per sopravvivere. Era la giungla a un passo da noi, e nella giungla la legge è diversa, ci si scanna per una gazzella o per un ettaro di Slavonia.
Nessuno può capire davvero cosa bruciasse nei cuori di chi credeva, sparava e incendiava in perfetta buona fede. Ma il ruolo della comunità internazionale deve essere giudicare la giungla senza usare gli artigli come parametro.
Solo così avanza la Storia. Invece la natura della bestia feroce - l'animale letale che sempre guarderemo con terrore e fascino - è sempre la stessa e non cambia. Cambia soltanto da che estremità guarda la corda.Marco Zucchetti
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