«La mia amica mi ha detto di essere stata stuprata da un uomo di colore. Allora mi sono messo a girare le strade, su e giù, con una mazza, pregando di essere avvicinato da qualche nero attaccabrighe, così che potessi ammazzarlo». La confessione dell'attore nordirlandese Liam Neeson a una giornalista fa rabbrividire. Ma non chiamatelo razzismo. Perché l'attore icona di film sull'orrore nazista come Schindler's List sa a quali conseguenze può portare l'odio razziale. Lui, che da ragazzo nordirlandese, ha conosciuto la violenza e la voglia di vendetta sa «che porta solo altra violenza e altre vendette», come ha detto nell'intervista finita su tutti i social. Eppure a Liam Neeson l'etichetta di razzista resterà appiccicata a lungo, come dimostra la decisione di annullare il red carpet che a New York doveva precedere la première del suo nuovo film Un uomo tranquillo, perché gli organizzatori lo hanno ritenuto «un evento non appropriato».
Peccato, perché è proprio il personaggio del suo film, uno spazzaneve che si vendica da solo della gang di narcotrafficanti che gli ha ammazzato il figlio, che racconta meglio di altri cosa scatta in una persona quando si subisce un torto, un trauma o peggio ancora il ferimento o la morte di una persona cara. Il razzismo non c'entra, e lo dice lo stesso Neeson, che quell'errore di 40 anni fa non l'aveva mai confessato a nessuno: «Se la mia amica mi avesse descritto un uomo bianco sarei andato in cerca di qualcuno con quelle caratteristiche - ha detto durante il talk show Good Morning America - Ho provato un istinto primordiale a sfogare la mia rabbia. Certo, è qualcosa che mi ha sconvolto e mi ha ferito. Uscivo di casa, a chi mi chiedeva dove andavo non dicevo nulla. Alla fine ho cercato aiuto e sono andato da un prete».
Il tema del giustiziere alla Charles Bronson negli anni '70 è un evergreen cinematografico che in un momento di sfiducia complessiva nella giustizia - soprattutto in quella italiana - può attecchire in menti deboli, in persone manipolabili, a cui si appiccica la voglia disperata di capri espiatori su cui riversare la colpa. È la rabbia delle baby gang che si sfoga sui ragazzini «diversi», che siano meridionali, clandestini o disabili non conta, è la furia cieca che ha acceso Luca Traini a Macerata. Il messaggio che l'attore voleva veicolare è che, almeno una volta nella vita, siamo tutti tentato di spezzare le regole morali scritte dentro di noi. Persino un uomo tranquillo come il personaggio del suo film.
L'importante è fermarsi un attimo prima del baratro. Confessare la propria debolezza perché altri ne facciano tesoro. Ma per l'ipocrisia hollywoodiana non conta. Peccato. Perché tacciare di razzismo la lezione di Neeson è un favore ai razzisti veri.
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