La corsa nel bunker: vi racconto la mia notte sotto i bombardamenti

Ogni bambino prima dell'età scolastica sa già dire "am Israel hai", il popolo d'Israele vive. È nella linfa genetica di un popolo che per sopravvivere ha dovuto imparare la strada dei miracoli

La corsa nel bunker: vi racconto la mia notte sotto i bombardamenti

I bambini sono i più bravi: quando sei ancora semisvestito e scendi nel rifugio alle 3 di notte, fanno due a due gli scalini polverosi e ripidi, scendono in una stanza buia dove al massimo c'è un materasso per terra, stanno tranquilli con gli occhi spalancati, non piagnucolano né chiedono; se gli offri dell'acqua o un biscotto ti degnano di un cenno della testa, in genere negativo. Aspettano il bum: ecco, arriva, ne arrivano tre o quattro, i bambini chiedono senza mostrare ansia dove sono, se abbiamo colpito il missile, se è arrivato fin sul nostro terreno. La radio non dice tutto, per non indirizzare il nemico. Se dopo si comincia a fare qualche preparativo per uscire, i bambini ti ricordano di aspettare i 10 minuti secondo la regola e di guardare sul telefonino se il «pikud ha oref», il fronte interno, ha confermato l'ordine. Alla tv schiere di giornalisti in genere impegnati nella politica interna uno contro l'altro, quasi tutti contro il premier, adesso sono per un numero di ore impensabile impegnati a raccontare appassionatamente l'incredibile avventura di un piccolo Paese che ha dovuto affrontare la pletora dei dittatori più aggressivi del mondo per sopravvivere. Senza nessuna retorica, sono fieri dei piloti; sul teleschermo intanto appaiono anche i mozziconi degli edifici di Ramat Gan, e si ricordano i nomi di tre morti e venti feriti.

A Canale 12 il giornalista di super opposizione, seduto accanto a un generale in divisa, spiega come in poche ore, con i missili più fatali e pericolosi, è stata ripulita la strada con un'acrobazia aerea da leggenda di 2mila chilometri; ricorda la distruzione dell'impianto atomico da parte di Begin in Irak e di Olmert in Siria. Il coro di proteste internazionali che si levò contro queste operazioni indispensabili era guidato dagli Usa, la parola d'ordine era la stessa: sopravvivere. La gente di Israele sa una cosa che il mondo ormai ignora: che sopravvivere viene per primo e che bisogna farlo con maestria, mirando giusto. Si deve ricordare che cosa è l'Iran e che cosa ha deciso, e qui ogni massaia lo sa benissimo: il 7 ottobre fu preparato con la sua collaborazione strategica, i suoi Hezbollah erano pronti a completare l'invasione dei macellai, di fianco Siria e Irak stringevano, pronti a completare l'operazione storica della distruzione di Israele. E, di lato, sempre la stessa mano, il vecchio ayatollah circondato dalle guardie della rivoluzione accanite e fanatiche, nella distribuzione accurata di compiti per la distruzione di Israele, nel genocidio del popolo ebraico. Soldi a palate, fabbriche di armi letali, geniali costruzioni cibernetiche, scienziati, arricchimento palese e nascosto di uranio, assassini allenati, dal Sud America a Gaza, solo nell'uccisione di ebrei. Alleanza con la Russia di Putin, strusciamento con la Cina.

Adesso per Israele, alla vigilia della bomba atomica, ci voleva un miracolo di bravura, ma bisognava chiudere: così non si poteva andare avanti. Una volta Golda Meir spiegò a Kissinger che l'arma segreta degli ebrei è che non hanno nessun altro posto dove andare. Di più: non hanno nessun altro posto che sia il loro. Ieri una signora anziana, la cui casa è stata distrutta, commentava: «Mia nipote di tre anni e mezzo mi ha chiesto il perché del botto spaventoso fuori della porta, e io le ho detto che forse da qualche parte era caduto qualcosa. Siamo rimasti a dormire nel rifugio fino alla mattina, tranquilli, chiusi, e ora ecco, la casa è distrutta, e noi si vive». La capacità di resistenza nell'affrontare anche questa guerra così funambolica e distruttiva contro gli ayatollah dopo due anni di Gaza, in cui i ragazzi e anche i padri di famiglia entrano e escono su un terreno in cui si rischia la morte, in cui Israele ha perso mille soldati, il lavoro, i figli, l'economia; la forza delle donne di reggere da sole famiglie con tanti bambini... È la componente che i nemici di Israele non sono capaci di prendere in considerazione. È il fantastico allenamento del popolo ebraico alla sopravvivenza persino nelle condizioni più estreme, la sua capacità di lavorare la terra mentre legge la Torah e fa la guerra anche dopo la Shoah.

C'è addirittura qualche povero illuso che disegna nei suoi interventi l'idea di una politica suicida di Israele, di Netanyahu. Niente è più sbagliato: così ha errato l'Iran con Sinwar quando ha interpretato il conflitto politico interno israeliano come un segnale di via al 7 ottobre; mai avrebbe immaginato Khamenei che i cercapersone avrebbero suonato la fine del suo maggior proxy, Nasrallah. Immaginava invece che la mostruosa determinazione di Hamas a sacrificare tutta la sua gente costruendo sulla cialtroneria antisemita la leggenda genocida avrebbe creato un inghippo internazionale molto difficile per Israele: era vero. Pensava che i rapiti fossero una trappola sanguinante, geniale. Era vero anche questo. Ma se pensava con questo che il popolo ebraico avrebbe scelto di morire nelle sue tenaglie senza affrontare la radice del male, ha commesso lo sbaglio della sua vita.

Ogni bambino prima dell'età scolastica sa già dire «am Israel hai», il popolo d'Israele vive. È nella linfa genetica di un popolo che per sopravvivere ha dovuto imparare la strada dei miracoli.

Non è la più facile, ma è quella che è stata già inaugurata e sperimentata nei secoli così tante volte, e che lo Stato d'Israele ha reso pane quotidiano, superando senza tregua l'assedio di un odio ideologico e religioso senza remissione. Adesso, se si vede come Giordania, Siria, Arabia Saudita, Egitto fermano nel cielo i missili iraniani, sembra aver trovato un suo punto di rottura strategico che disegna una svolta.

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