Si arriva a un punto in cui i morti smetti di contarli. Non ce la fai a seguire la lista quotidiana dei numeri del virus. Contagiati, ricoverati, in terapia intensiva, guariti e quelli che non ci sono più. Dopo mesi e mesi ti fermi. Metti un punto. La conta diventa una sorta di rito scandito con toni burocratici. Sei anestetizzato. Ti risvegliano solo i nomi che conosci, quelli a cui sai dare un volto e la tragedia ti tocca quando i morti sono i tuoi. Lì si aprono ferite che non potrai mai rimarginare. È umano anche questo, perché gli altri sono troppi e non riuscirai mai a piangerli tutti.
I numeri dopo un po' diventano freddi. Non li ascolti. Sembra quasi che non ti dicano più nulla. Poi capita che qualcuno è più tondo degli altri. È una soglia, che all'inizio percepisci quasi in modo distratto, poi ti fermi e ti fa impressione: 40.000. Quarantamila e passa sono i morti ufficiali di Covid in Italia. Ormai da tempo sappiamo che non è andato tutto bene.
Non ci sono più le immagini delle bare di Bergamo portate via dai camion dell'esercito. Non senti le sirene tristi della primavera e incroci le dita, perché non sia di nuovo così. Ci sono solo i numeri, silenziosi, a segnare i giorni e le strade deserte.
Quando i numeri si fanno grandi devi imparare a immaginarli.
Te li disegni come un città, che ha più o meno gli stessi abitanti di Busto Arsizio, Monterotondo o Pomigliano d'Arco. Il guaio è che non puoi ancora dire che sia finita. Nessuno ancora può dire quanto è destinata a crescere. Ti resta il senso di una disfatta. I morti di Caporetto furono 12mila, quelli di Waterloo 15mila. È chiaro che quella contro il virus non è una battaglia. È una lotta lunga, lenta, che ti logora e di cui ancora si fatica a segnare i confini. È questa forse la cosa che fa più paura. Non sapere. Non avere un orizzonte. Questo andare avanti a tentoni in attesa di un colpo di fortuna. Ti senti inerme e ti rassegni a contare.
I numeri però ci stanno tradendo. Non riesci a stargli dietro. Sono più veloci dei nostri tentativi di leggerli, di ingabbiarli, di capirli. Ti ritrovi costantemente in ritardo. C'è una cosa in questi giorni che tutti abbiamo capito. I numeri non li puoi inseguire. Non siamo riusciti a tracciare i contagi. Era questa la grande speranza all'inizio dell'estate. Era la strategia di sopravvivenza. Non ha funzionato. I numeri sono diventati troppo grandi e non riesci a stare dietro a tutti e non puoi dargli un nome. Abbiamo pensato di risolvere ogni cosa con le funzioni matematiche.
Forse ci siamo fatti poche domande. È strano, ma da un po' di tempo nel dibattito pubblico si parla poco della natura del virus. Gli stessi virologi rispondono a fatica e qualche volta con un certo fastidio. Si discute di cosa e quando chiudere, di coprifuochi, ti dicono che siamo stati sciagurati, ti spiegano la morale e i contrasti politici, ma lui, il Sars-Cov-2, sembra quasi finito ai margini. Lo conosciamo? Non tantissimo. Non sappiamo ancora come è avvenuto il salto. Non sappiamo bene come si comporta e neppure con precisione come uccide. Come si muore di Covid?
Tutto questo ci sta. Il virus è ancora giovane e la scienza non ha mai avuto la pretesa di dare risposte assolute. È ricerca. Ma allora perché noi abbiamo smesso di fare domande? Davvero il secondo giro del contagio si spiega solo con la bella vita dell'estate?
Ci siamo rassegnati. Stiamo cominciando a vivere il virus come una maledizione biblica, una sorta di peccato, da scontare. Questo alla fine fa davvero paura. Non avere più la voglia di capire.
Non ci interessa più. Stiamo solo chiudendo gli occhi. Le domande invece le dobbiamo ai nostri morti e a noi stessi. Siamo di nuovo tutti a casa come nei giorni di marzo, ma questa volta senza neppure più il coraggio di chiederci perché.
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